di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani
il sole 24 ore 24 Agosto 2019
La riforma costituzionale che prevede il cosiddetto “taglio del numero dei parlamentari”, cioè la diminuzione di più di un terzo di deputati e senatori, sembra lo scoglio su cui rischia di arenarsi l’ipotesi di un nuovo governo che unisca Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico. I primi paiono porre la modifica come condizione per qualsiasi alleanza. I secondi non la ritengono una priorità e anzi sono tendenzialmente contrari ad essa.
Ora, la drastica riduzione dei parlamentari che cosa comporta e come incide sul funzionamento della nostra democrazia? Certo non consente un risparmio decisivo per le casse del Paese. Secondo l’Osservatorio sui conti pubblici guidato da Carlo Cottarelli, si sostanzierebbe in 57 milioni di euro all’anno, pari allo 0,007 % della spesa pubblica. Una bella somma in sé considerata ma tutto sommato irrisoria se paragonata al bilancio dello Stato. Il principale argomento con cui la riforma viene presentata non si rivela, dunque, particolarmente convincente.
A livello simbolico, poi, l’eliminazione di 230 deputati e 115 senatori manda un segnale preciso circa la scarsa considerazione di cui godono gli “onorevoli” e, con essi, le aule che occupano. In un periodo nel quale le scelte politiche vengono adottate sempre più spesso al di fuori delle sedi istituzionali, non ci pare un dato incoraggiante.
Ma l’esito più importante, anche se forse meno immediato, di tale riforma sarebbe un altro. Come noto, il nostro sistema elettorale è una combinazione di proporzionale e maggioritario. In particolare, al Senato – ove i seggi sono attribuiti esclusivamente su base regionale – la diminuzione dei parlamentari comporterebbe una più esigua rappresentanza dei partiti minori, specie nelle regioni meno popolose alle quali sarebbero garantiti non più sette ma solo tre senatori (Molise e Valle d’Aosta continuerebbero ad averne rispettivamente due e uno). In tali regioni, sarebbero eletti soltanto i rappresentanti dei partiti più votati, con un evidente sacrificio delle minoranze.
Per ovviare a questi effetti distorsivi della rappresentanza, da più parti si sottolinea la necessità di accompagnare la riforma costituzionale con una nuova legge elettorale pressoché interamente proporzionale. In altri termini, ammettendo pure una soglia di sbarramento, si tornerebbe a un sistema molto simile a quello in vigore prima del referendum del 1993, che condusse a una modifica in senso prevalentemente uninominale maggioritario. Il fine allora era quello di favorire un più stretto rapporto fra elettori ed eletti nei collegi e consentire ai cittadini di dare indicazioni circa la coalizione destinata a governare.
Le leggi elettorali susseguitesi dal 2005 al 2015, in verità, hanno progressivamente ripudiato tale modello, abbandonando il collegio uninominale e innestando su impianti proporzionali cospicui premi di maggioranza, venuti però meno a seguito degli interventi della Corte costituzionale del 2014 e del 2017.
La legge elettorale del 2017, quella oggi in vigore, ha poi resuscitato i collegi uninominali, sia pure per poco più di un terzo dei seggi, che favoriscono i raggruppamenti più forti e al contempo rafforzano i legami territoriali tra elettori e rappresentanti. Ed è proprio questa parte che sarebbe eliminata se il sistema tornasse proporzionale.
Precisiamo: come spesso accade per le grandi opzioni di architettura costituzionale, non vi sono scelte “giuste” o “sbagliate” tout court. A dispetto di quanto la discussione pubblica ci abbia di recente abituato, a parte soluzioni davvero estemporanee e strampalate, sono svariate le alternative che un legislatore riformista ha di fronte. Occorre, però, avere ben presente che assetti diversi producono effetti diversi.
Una scelta decisa in senso proporzionale, come quella all’ordine del giorno, condurrebbe a un parlamento più frastagliato, in cui gli accordi di governo sarebbero più fluidi e difficilmente esplicitati prima delle elezioni. E al contempo, con l’abbandono dei collegi uninominali, residuerebbe un sistema solo con liste chiuse, compilate dai vertici dei partiti. E ciò potrebbe accrescere quel disamore per la politica che costituisce uno dei grandi mali delle democrazie di inizio secolo. In sintesi, tagliare il numero dei parlamentari ed eliminare i collegi uninominali avrebbe un costo non da poco: si rischierebbe il reclutamento di una classe politica più fedele al “capo” e meno legata al territorio e si sottrarrebbe ulteriormente al corpo elettorale la possibilità di contribuire, con il proprio voto per una singola specifica persona, alla formazione di una maggioranza capace di governare stabilmente.
Il nostro Paese, oggi smarrito, non ci pare abbia bisogno di questo.