di paolo bagnoli
A oltre sei lustri dalla scomparsa dei partiti storici e della sinistra dalla scena politica italiana, nonostante la non poca letteratura prodotta sulla materia, occorre osservare come la questione della sinistra vada reimpostata. Non si tratta di un’esigenza esclusivamente storica, ma precipuamente politica se si ritiene, come noi riteniamo, che la storia della sinistra italiana non appartenga al passato, ma alla politica nel senso che la sua vicenda costituisce, o dovrebbe costituire, l’elemento di avvio di una riflessione propedeutica al reinsediamento della medesima nell’Italia del presente; in qualche modo ripartendo da zero rispetto ai travagli del passato i quali, tuttavia, non possono essere messi da parte se l’intenzione dell’operazione ha un segno positivo considerato che la storia ha emesso il proprio giudizio e dove sono gli errori, le occasioni mancate, le cose giuste è risaputo. Tutto ciò, evidentemente, non può essere dimenticato e non si può far finta che non ci sia, ma se oggi l’Italia è l’unico Paese europeo in cui non vi è traccia di una sinistra degna di questo nome, una ragione ci sarà.
Se si ritiene il fatto non solo un’anomalia temporanea per quanto lungo il periodo possa essere, ma un qualcosa che oramai, non da oggi, rasenta il rischio della rimozione concettuale e storica, allora il taglio delle riflessioni deve cambiare poiché, se la politica politicata può scontare senza scandalo alcuni equivoci e pure contraddizioni, non può essere così per la cultura politica e la dimensione storico-ideologica cui essa si lega. È questo il nodo che va prima riproposto e poi sciolto. Non si tratta di una questione semplice in quanto il suo scioglimento non può puntare a riproporre la situazione di un tempo. Essa, al totale della storia, si è dimostrata fallimentare poiché oggi la sinistra in Italia non c’è – va osservato, peraltro, che anche nel resto d’Europa la crisi della sinistra è assai forte scontando la subordinazione alle politiche liberiste che, basandosi sul “singolo” e sul “mercato”, si collocano contro natura rispetto al socialismo – al di là dei meriti dei suoi protagonisti e delle sue lotte, che pure ci sono nonostante i macroscopici errori che sappiamo, anche perché reimpostare la sinistra nella fattualità del Paese significa concepirla in maniera unitaria che è poi, quando rinascerà, l’unico modo per cui possa essere. Qui si pone la prima questione.
Da tempo si spaccia per sinistra ciò che sinistra non è in virtù di una dinamica elementare per cui chi si contrappone alla destra non può che essere sinistra; ma così non è. Inoltre, come se ciò non bastasse si omologa sinistra e centrosinistra, che sono due concetti diversi; il primo storico-ideologico, il secondo squisitamente politico, ossia una formula, ma la confusione e la pertinacia nel continuare nell’equivoco è talmente forte che chi non può dirsi di sinistra – e non c’è niente di male – ma si colloca nel centrosinistra diviene, per una proprietà transitiva astrusa, ipso facto di sinistra. La conseguenza, paradossale, è che allora in Italia una sinistra c’è e, se c’è, non c’è bisogno di porsi la questione, ma di sostenere quanto esiste. Insomma, una confusione che, impossessandoci a uso strumentale di una definizione di Antonio Labriola, richiede una “delucidazione preliminare”.
Cosa si deve intendere, infatti, per sinistra? Dal momento che di esse, quali tendenze all’interno delle più varie formazioni politiche, ne esistono molte, qualcuno potrebbe dire che ne abbiamo talmente tante che bastano e avanzano. La sinistra, quella vera, quale categoria politico-culturale-sociale della storia del mondo è quella che connota la storia del movimento operaio e delle forze che l’hanno organizzato e rappresentato; del mondo di valori cui hanno improntato le loro lotte per l’emancipazione sociale, la giustizia, il riscatto dell’uomo alla propria dignità e a una vita che meriti di essere vissuta. E se la classe operaia non è più la classe generale non con questo sono venuti meno il lavoro subordinato, i salariati, lo sfruttamento, l’esigenza di una società più giusta nella quale non siano negati i diritti fondamentali al lavoro, alla salute, all’istruzione, a una società non fatta solo per le categorie più forti; insomma, la sinistra è rappresentata e simbolizzata da quelle forze che non hanno abbandonato la lotta di classe per una società più umana e più equa. Ancora oggi e lo sarà sempre, la sinistra è quanto eredita, rappresenta e continua la cultura del movimento operaio; una cultura categoriale considerati i cambiamenti avvenuti e il continuo mutare del mondo del lavoro che, se non governato, crea sostanziali arretramenti civili, ampliando i solchi sociali della moderna società con la conseguenza che i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri; i primi sempre meno e controllanti ingenti ricchezze e i secondi sempre di più con sempre meno diritti e opportunità. Il mondo del lavoro non è scomparso, esiste e chiede di essere organizzato e indirizzato.
Ciò non può farlo che un grande soggetto “socialista” se non vogliamo che la Lega prenda i voti degli operai e il sottoproletariato voti a destra e magari, chi si qualifica di sinistra, riceva quelli dei benestanti.
Ci rendiamo conto che può apparire un discorso del tempo andato, sorpassato; ma così non è. Ciò per mettere a fuoco cosa si debba intendere per sinistra; nella storia italiana la sinistra era articolata in due forze: il PSI e il PCI. Le loro storie sono ben note e, quest’anno, ricorrendo il centenario del congresso di Livorno che vede la scissione da cui nasce quello che sarà il PCI essa è stata ricordata, ricostruita e commentata in lungo e largo.
Livorno segna la fine del PSI come la forza rappresentante il movimento operaio italiano; l’unico soggetto socialista e le ragioni della rottura nel corso di tutti gli anni che seguiranno, anche in quelli che, sia durante la lotta antifascista che dopo la nascita della Repubblica, vedranno i due partiti attestati su un fronte unitario, nonostante tutti i cambiamenti intervenuti sia nel troncone comunista che in quello socialista, verranno mai risolte e la sinistra cristallizzata in socialisti e comunisti non riuscirà mai ad avere una intenzione di unità politica che, pur ferme la diversità culturale e la motivazione storica, li vedano promotori di un ‘iniziativa unitaria per il governo del Paese. Non solo, ma se le questioni politiche risultano irrisolvibili quando esse divengono questioni culturali anche quando queste ultime, pur con forzature oggi incomprensibili se si pensa alla natura del PSI, non avevano un peso rilevante e il Partito socialista è nettamente quanto poco comprensibilmente allineato alla politica sovietica, sul piano più squisitamente politico un’univoca strategia politica unitaria non ci sembra riscontrabile se si eccettua il Fronte Democratico Popolare del 1948 che, più dei comunisti, Pietro Nenni volle portando il Partito a pagare un prezzo dal quale, a ben vedere, non si è più ripreso. Con ciò le forze di classe continuarono in un rapporto unitario nella CGIL, nella Lega delle Cooperative, nel movimento di massa che animava le Case del Popolo nonché in numerose amministrazioni locali, ma ciò non aveva il carattere di un insieme che costruisse un ‘alternativa al potere moderato e alle sue espressioni. Era un dato di fatto, sicuramente significativo, ma non per questo sufficiente a rappresentare un’aspirazione più ampia. Potremmo dire che era una testimonianza più che il pezzo di un più ampio mosaico politico.
Ora, le ragioni del perché è così, hanno radici profonde e motivate. La scissione di Livorno aveva provocato un qualcosa di più di una differenziazione organizzativa; aveva calibrato la qualità e la funzione della sinistra sul parametro della rivoluzione d’ottobre; rivoluzione che poi d’ottobre non era poiché il regime autocratico zarista era caduto nel febbraio 1917, con il governo Kerenskii, mentre nell’ottobre c’era stato il colpo di stato che aveva insediato Lenin e i bolscevichi al potere. Un grande evento– non è qui ora il caso di ricostruire seppur brevemente un dibattito e quanto caratterizzò il PSI guidato dalla corrente dei “comunisti unitari” il cui leader era Giacinto Menotti Serrati; due anni dopo confluiranno tutti nel Pcd’I e la differente posizione dei “concentrazionisti unitari” guidati da Filippo Turati che nel 1922, su dictat di Lenin saranno espulsi dando vita al PSU con segretario Giacomo Matteotti – il quale, al di là ed oltre le diverse e spesso contraddittorie posizioni politiche assunte dai comunisti fin dal periodo della lotta al fascismo, nel variare delle posizioni via via assunte, faceva sì che il comunismo italiano, come anche per gli altri partiti comunisti, non solo non poteva concepirsi non legato a Mosca ma quanto, benché la politica sovietica variasse secondo le decisioni di Stalin – compreso il patto Molotov-Von Ribentropp – il fine del comunismo italiano rimanesse il fare come in Russia; che la rivoluzione, se così si può chiamare un colpo di stato che generò lo stalinismo, era e rimaneva lo scopo che motivava l’azione dei vari partiti comunisti. Il non aver mai sciolto tale nodo in maniera chiara, al di là dei passi in avanti e delle progressive prese di posizione condite in salsa occidentale, prese via via dal PCI, ha costituito uno dei motivi che ha reso difficile l’unità politica che sarebbe stata necessaria non solo per ricomporre la sinistra, e non ci riferiamo certo alla formazione di un partito unico, ma per far prevalere, pur nelle difficoltà oggettive del caso, quanto univa rispetto a ciò che divideva.
Il PCI uscì vincitore rispetto al PSI nella sconfitta del Fronte Popolare. Il socialismo italiano, già fiaccato da una scissione – Palazzo Barberini lo provò assai duramente anche se più nel gruppo dirigente che nel sentimento popolare – si trovò, per dirla in poche parole, senza una politica e, per di più, oggetto di un’offensiva morale e politica quale forza subalterna della sinistra di classe anche se va notato come, nel triangolo operaio formato da Torino, Milano e Genova, la presenza e i voti socialisti non erano minoritari rispetto a quelli che raccoglieva il PCI. Il PSI era e rimaneva una forza della classe depotenziata, tuttavia, nella sua funzione autonoma di forza la quale, secondo quando scaturito dai risultati per l’Assemblea Costituente, sembrava destinata a esserne la forza trainante. I fatti non andarono così, ma la situazione poneva un altro problema riguardante principalmente il Psi. La prima questione era che il Partito non aveva la consistenza organizzativa del Partito Comunista con il quale, dopo la sconfitta del Fronte Popolare, continuava a mantenere un saldo collegamento unitario sul quale gravava la ipoteca egemonica dei comunisti. Fu la questione riguardante l’unità di classe che affrontò Rodolfo Morandi reimpostando la struttura del Partito al fine di dare al PSI capacità e forza di tenuta di componente primaria nella realtà di classe e, quindi, nella sinistra. Ciò, considerato che fu proprio Morandi nel Congresso di Torino del 1955, ad aprire in qualche modo alle masse cattoliche, smentisce la vulgata del morandismo come un’omologazione del PSI alla volontà comunista. Il problema era che l’unità frontista voluta da Pietro Nenni e pagata caramente dal PSI era dovuta al convincimento che, seppur la guerra mondiale fosse finita, lo scontro tra Occidente e Oriente non era finito, ma solo rimandato e che, invece di una guerra fredda, ce ne sarebbe stata una “calda”; nel caso, il posto del PSI non avrebbe potuto che essere dalla parte della sinistra mondiale e, quindi, con Mosca considerato che il socialismo italiano era una presenza isolata anche dal contesto delle altre realtà del socialismo europeo essendo fuori dall’Internazionale. La guerra fu solo fredda e non si può ipotizzare cosa sarebbe successo se le cose avessero preso una direzione diversa da quella che sappiamo. Va aggiunto, quale elemento di completezza del discorso, quanto pesasse sul PSI la guerra. La vittoria dell’alleanza antifascista aveva avuto nella Russia di Stalin, che aveva pagato un prezzo altissimo alla sconfitta del nazifascismo, un pilastro da cui era oggettivamente impossibile prescindere; vale a dire, che senza la Russia e si suoi milioni di morti la vittoria difficilmente sarebbe stata possibile. La posizione di Morandi, tuttavia, traguardava un’altra posizione, meno condizionata dalla politica internazionale, ma che poneva il PSI come fattore dinamico della democrazia italiana in una stagione nella quale il tema non era certo all’ordine del giorno della politica italiana. Ciò, non contraddiceva con l’opera di rafforzamento del PSI quale forza di classe nella classe e fautore di una politica di classe unitaria, ma configurava un PSI quale elemento che potremmo definire dinamicamente egemonico sempre che, tale sua funzione, riuscisse a convogliare unitariamente l’insieme della sinistra. Sarebbe tempo sprecato mettersi a ragionare cosa sarebbe potuto succedere se l’azione di Morandi avesse avuto successo, così come al richiamo al leninismo quale sviluppo del marxismo e superamento sia della socialdemocrazia che del massimalismo di cui parlò al Congresso della Federazione giovanile socialista di Modena nella primavera del 1950 e alla relazione con la proposta avanzata al Congresso socialista di Torino dell’estate 1955 – Stalin era già morto con grandi lacrime del PSI – sull’incontro tra masse socialiste e masse cattoliche. Rodolfo Morandi morì il 26 luglio 1955; il PSI non poteva inquadrarsi, per ragioni storiche ben precedenti le vicende del Congresso di Livorno, in uno schema leninista anche perché il Partito registrava una ricchezza e vivacità culturali interne ben più marcata rispetto a quella che troviamo nel PCI poiché gli intellettuali riferentesi al PSI – nel quale lo spirito libertaristico era un dato genetico – non avevano la funzione di propagandare la “linea” che scendeva dall’alto, ma dalle loro posizioni ambivano a costruirla in un percorso inverso. Va riconosciuto, tuttavia, che Morandi tramite un insieme complesso prefigurò un qualcosa – nel sostenere l’incontro tra masse socialiste e masse cattoliche – assai diverso da una similare proposta del PCI che dopo il 1947 e la cacciata della sinistre dal governo cercò sempre di farsi legittimare dalla DC quale forza che poteva governare lo Stato e questa fu, e rimase, l’unica vera linea che, in modi e forme talora diverse, il PCI ha perseguito coerentemente fino alla fine di se stesso. Ciò non significa che il PCI facesse sconti nella sua opposizione né ai governi centristi né a quelli di centro-sinistra. L’opposizione ci fu e pure assai dura, non certo “compromissoria”, ma ciò non comportò lo spostamento della linea strategica del partito. Una linea che, successivamente, i post-comunisti hanno ritenuto di poterla finalmente realizzare con la nascita del PD.
Quella dei comunisti, si noti bene, non era una politica motivata, come lo sarà quella dei socialisti con la stagione del centro-sinistra, da un cambiamento strutturale della società italiana, ma sostanzialmente dal raggiungimento di un fine esclusivo di partito. Si può ragionevolmente arguire che, per quanto le finalità appaiano similari, il dato di una possibile politica unitaria della sinistra, è ben diverso e lo è per l’accavallarsi di questioni che non lo contemplavano veramente. Infatti, se l’intento morandiano era di recuperare lo scarto di ruolo nella politica di classe nei confronti del PCI, visto quanto sostenuto al Congresso di Torino, esso comportava un percorso dei socialisti politicamente motivato da ragioni ideologiche autonomistiche che non avrebbero messo in crisi il dato dell’unità, là dove la politica togliattiana implicava altro; non essere impediti nel tornare al governo del Paese e, quindi, vedersi riconosciuta quella funzione di forza nazionale acquisita durante la Resistenza. Tale posizione, tuttavia, non teneva conto del contesto internazionale; perché ciò, infatti, potesse avvenire, richiedeva, in un’Europa su cui era calata una cortina di ferro, che vi fosse un Partito espressione delle esigenze sovietiche. Qui era e qui rimaneva il problema. Tale nodo irrisolto ha impedito la possibilità di costruire una sinistra ricomposta unitariamente anche se ciò non vuol dire organizzativamente. Ciò non significa che non vi furono da parte del PCI comportamenti unitari, ma il non venir meno della specificità comunista, ossia della loro quasi antropologica “diversità”, non permise l’avviarsi di un cammino di autonomia e la grande occasione persa è stato il ’56, ossia i fatti di Ungheria. Dalla drammatica vicenda ungherese, che determinò una frattura profonda, il comunismo italiano non trasse le dovute conseguenze le quali, se ci riflettiamo, non avrebbero nemmeno richiesto di abiurare per dichiararsi “socialisti”, ma proprio in nome e per conto della diversità tanto conclamata passare ideologicamente nel campo della democrazia tout court fermo restando che, in quello della “democrazia costituzionale” – se così si può dire anche se suona come una contraddizione – i comunisti erano saldamente impiantati. Oltretutto lo sviluppo della politica socialista avviato con il Congresso di Venezia del 1957 e la proclamazione di un corso autonomo non significava, nelle intenzioni più vere di allora – lo divenne assai dopo –una rottura del rapporto di classe coi comunisti, ma l’avvio di una nuova progettuale stagione politica che avrebbe condotto all’incontro di governo con la DC; le masse socialiste incontravano – riecco Morandi – quelle cattoliche per una stagione di riforme che furono di impatto notevole nel primo passaggio segnato dall’appoggio esterno del PSI al IV governo Fanfani e, se pure con una articolazione dialettica forte all’interno del Partito dopo la notte di San Gregorio del 16/17 giugno 1963 che segnò la rottura della corrente autonomista, non mancarono, se andiamo a ben vedere, importanti realizzazioni riformatrici nei governi successivi: pensiamo, per tutte, allo Statuto dei Lavoratori legato al nome di Giacomo Brodolini. Allora, se mettiamo logicamente insieme, quanto avrebbe potuto – e a nostro avviso, dovuto – accadere dopo i fatti di Ungheria con quanto apertosi con il Congresso di Venezia avremmo avuto, se pur in atteggiamenti diversificati, ma non conflittuali, tra socialisti e comunisti, una spinta propulsiva al processo riformatore che avrebbe fatto della “sinistra unita” l’asse cardanico dello spostamento a sinistra sostanziale del Paese e determinato, quale conseguenza non difficilmente prevedibile, l’attuarsi di un’alternativa di sinistra che avrebbe comportato, altrettanto prevedibilmente, o prima o dopo, alla ricomposizione della rottura di Livorno essendo venuti meno i motivi che l’avevano determinata. Va anche osservato che pure la “sinistra carrista” rimase nel Partito.
Il logoramento della formula di centro-sinistra comportò pure chiarezza nel dibattito. È vero che il PSI era sostanzialmente fermo nei risultati elettorali, ma ciò non toglieva ragione alla necessità di rafforzare con un processo unitario l’azione della sinistra; lasciare solo il PSI a sostenere il rapporto di governo con la DC e gli interessi che essa rappresentava, fu un errore fatale e i richiami, responsabili e politicamente validi, di Francesco De Martino ad una assunzione di responsabilità reale da parte dei comunisti furono presi come l’espressione di una subalternità dei socialisti al PCI quando, al contrario, erano atti di una responsabilità autonomistica che, per il bene del Paese, tutta la sinistra era chiamata ad assolvere.
Nel 1973, il PCI, che da tempo oltre le Alpi dialogava con le forze del socialismo occidentale, a conferma di una incomprensibile pervicacia che cercava di tenere insieme continuità e diversità, con la proposta del compromesso storico – il fine era sempre quello togliattiano di riagganciare la DC nel governo del Paese e, quindi, di avere dalla DC il riconoscimento della legittimità a governarlo – sancì una sostanziale ulteriore rottura con i socialisti, anche da un punto di vista culturale. La necessità di rafforzare la Repubblica democratica era reale visti i tentativi, meno male abortiti, di colpo di Stato che si erano verificati negli anni Sessanta e quanto aveva preso corpo il terrorismo di destra, di sinistra e pure di Stato grazie a gruppi eversivi di destra manovrati e coperti da pezzi di servizi segreti agli ordini della CIA. Lo scopo politico era chiaro; nel mirino c’era la sinistra poiché, per un verso, si doveva impedire che i comunisti andassero al governo e, per un altro, che venisse bloccata l’azione riformatrice dei socialisti. I fatti cileni rappresentarono l’occasione per avanzare la proposta del “compromesso storico”. Essa, tuttavia, si risolse in una proposta confusa in cui si poteva trovare tutto quanto, in primo luogo, non costituisse motivo di rottura tra le varie componenti interne. Forse le cose sarebbero andate diversamente se, pur con un ritardo assai pesante, si fosse posta al centro, quale grande questione democratica, quella del socialismo nel nostro Paese – un socialismo nella libertà, beninteso; un socialismo nuovo per un’Italia nuova – a compimento della sostanziale chiusura di una stagione politica e al fatto che, per dirla in parole povere, aveva poco senso fare i socialdemocratici fuori d’Italia e tener lontana la possibilità di esserlo in patria, ove il PCI si comportava come una forza socialdemocratica.. Ma se all’estero le posizioni critiche verso l’Unione Sovietica davano, in qualche modo, forza alla “diversità” del PCI, in Italia la questione era diversa poiché non si trattava tanto di rinnegare una storia quanto di riconoscere che quella storia era finita e che la sinistra non poteva che essere socialista. In fondo sarebbe stato un cambiamento pensandosi sempre in continuità con se stessi; un qualcosa che, in un contesto storico mutato, era capitata anche al PSI il quale, pur passando da una stagione politica ad un’altra, non aveva mai smesso d pensarsi in continuità con se stesso; ovvero, di un partito il cui compito storico era di modificare e di superare per via democratica il sistema capitalistico. Ossia, di dare ragione all’esistenza stessa di un partito socialista che, se non si propone di cambiare il sistema, non si riesce onestamente a capire a cosa serva.
Il PCI, dalla seconda metà degli anni Settanta, mandò dei segnali rilevanti. Nel 1976 affermò che sotto l’ombrello della NATO ci si sentiva più sicuri e nel novembre 1981 Enrico Berlinguer dichiarò la fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre. Un discorso che venne interpretato, come sostenevano Ugo La Malfa ed Eugenio Scalfari, alla stregua di un preannuncio della rottura con Mosca. Diverso fu il giudizio degli intellettuali socialisti raccolti intorno alla rivista “Mondoperaio” che, invece, non vi riscontravano nessuna rottura, ma solo una generica presa di distanza dallo stalinismo che non conduceva al ripudio del marxismo-leninismo né all’ammissione della repressione del dissenso in Unione Sovietica quale sua diretta emanazione. Il PCI, però, era paralizzato nella propria ragione storica essendo il tutto subordinato al mantenimento dell’unità del partito che l’Unione Sovietica avrebbe rotto in caso di “svolta”, ossia di passaggio dal comunismo al socialismo ed era un prezzo che non si voleva pagare. Pietro Nenni, pur di perseguire la propria politica, si assunse la responsabilità di due pesanti scissioni e pure di un fallimento finito, nel 1969, in un’altra scissione per come tre anni prima venne fatta l’unificazione socialista.
Il risultato elettorale del 1976 vede il PCI al 34,37% alla Camera e al 33,83% al Senato; era un voto che chiedeva un’assunzione di responsabilità per costruire una sinistra di governo. La sinistra storica – PSI e PCI – era attestata un po’ sopra il 44%. Oramai la stagione del centro-sinistra era finita, ma si passò a quella della solidarietà nazionale nella quale il PCI vide lo svolgersi della proposta del compromesso storico; invece del PSI e di una sinistra unita di governo il PCI aveva scelto Aldo Moro. Caduta l’Unione Sovietica anche i partiti che vi facevano riferimento dovettero rimettersi in gioco e forse giova ricordare che il PCI decise di chiudere ben due giorni dopo il partito bulgaro. Achille Occhetto la definì “svolta”, ma di ben altro si trattò: del tentativo di rimanere se stessi adeguandosi ai tempi e, naturalmente, cambiando nome. La lezione della storia, però, non fu sufficiente; pur di non diventare “socialisti” si volle rimanere “diversi”; l’unica forza, in qualche modo, rimasta in piedi dopo lo tsunami di Tangentopoli, si tramutò in “democratica di sinistra” e poi si movimentò togliendo anche il riferimento all’essere un partito fino a dar vita, con quanto era rimasto in piedi della sinistra DC, al PD; vale a dire ad una forza che, fin dal suo sorgere, si capiva non sarebbe riuscita ad essere “partito”. E così, scomparso il PSI e non certo per colpa esclusiva dell’azione giudiziaria e affogato in un confuso centro indistinto quanto restava del post-comunismo, anche quanto non era crollato della “sinistra” scompariva nel gorgo del moderatismo governista. L’obiettivo di incontrarsi di nuovo, in qualche modo, con i democristiani si realizzava, ma senza la forza del movimento, ossia della rappresentanza di classe, si affermava il berlusconismo prima e poi, dopo infelici passaggi intermedi, il doppio populismo dei 5Stelle e della Lega.
Infine, un’ultima osservazione: come le ragioni del partito prevalsero nel PCI, ciò accadde anche nel PSI che Bettino Craxi e i suoi condussero verso improprie politiche di potere che ne determinarono la fine. E fu la fine di una forza la quale, nonostante gli errori compiuti aveva, per un secolo, lottato per lo sviluppo della democrazia e della giustizia sociale. Una grande storia che non meritava di finire come è finita.
La democrazia italiana orbata della sinistra è oggi ben più debole di ieri e talora traballa pericolosamente l’impianto dello stato di diritto e il principio di legittimità su cui si basa; sono scuotimenti che colpiscono con forza la Repubblica di cui la sinistra è sempre stata presidio e salvaguardia.
Che fare, allora? Pietro Nenni diceva che anche quando tutto sembra perduto c’è ancora sempre una cosa da fare. La riflessione e l’impegno dovrebbero tenerne conto.
[da “Infinitimondi”. N. 19/2021 – 21 OTTOBRE 2021]
Storico, giornalista, politico socialista, già Senatore della Repubblica. Attivo nella ricerca storica e culturale, autore di innumerevoli testi sulle idee e le personalità della storia italiana espressione del pensiero democratico, progressista e liberalsocialista. Ha fondato il mensile «La Rivoluzione democratica» e dirige la «Rivista Storica del Socialismo».
Grazie Paolo Bagnoli. Una lezione di Storia da far leggere a tutti i “sinistri” perchè si rendano conto dei danni che hanno procurato al Paese. Italo Pattarini