DIALOGO TRA GIOVANNI PERAZZOLI E VERONICA DE ROMANIS
Giovanni Perazzoli: La resistenza nel chiedere l’attivazione del Mes sembra un’impuntatura priva di senso che, oltre ad incidere negativamente sulle risorse della sanità, continua ad alimentare nell’opinione pubblica italiana una forte diffidenza verso l’Europa. C’è chi congettura clausole nascoste e trappole che avrebbero lo scopo di porre all’Italia delle condizioni insostenibili dopo l’adesione. Non sono solo i populisti a seguire questa linea. Lei ha detto più volte che, se parliamo di numeri e di fatti oggettivi, non dovremmo temere il Mes. Una delle obiezioni che circolano è però che gli altri paesi non hanno richiesto l’attivazione del MES.
Veronica de Romanis: Il ministro Gualtieri è stato chiarissimo. Il MES non ha altre condizionalità se non quelle sanitarie e lui lo sa, visto che lui ha negoziato il trattato. Dal punto di vista tecnico non ci sono dubbi. Non ci sono condizioni ex post, come, del resto, non ci sono mai state in nessuno strumento europeo, neanche con il Mes precedente. Il risparmio per l’Italia è calcolato intorno ai 300 milioni l’anno. Non è poco. Quanto al rischio di sorveglianza, bisogna ricordare che la sorveglianza è indipendente dal MES. Per adesso il patto di stabilità è stato sospeso, ma quando verrà ripreso, è chiaro che riprenderà anche la sorveglianza per la stabilità dei conti pubblici. Ma questo non c’entra con il Mes, c’entra con il coordinamento legato al semestre europeo. Sgombrato dunque il campo dalle critiche tecniche, rimane il punto su cui insiste Conte: perché non ne usufruiscono gli altri? Intanto, un paese grande come l’Italia dovrebbe avere una leadership per fare quello che deve fare, senza doversi accodare con gli altri paesi. Inoltre, mi pare che porsi questa domanda significhi semplicemente non capire la logica degli aiuti europei. L’Europa interviene come mai prima con due tipi di aiuti, uno per l’emergenza e l’altro per la ricostruzione. L’emergenza comprende un fondo della Banca europea per gli investimenti destinato alle imprese, un fondo per il mercato del lavoro (Sure) e infine il Mes. Sono tre strumenti da utilizzare subito per l’emergenza. Con il Mes potremmo comprare vaccini antinfluenzali, ma potremmo anche utilizzarli per migliorare il servizio dei trasporti pubblici, che è una spesa sanitaria indiretta perché siamo in una pandemia. Non mi dilungo in altri esempi. Si tratta in breve di uno strumento per fronteggiare l’impatto dell’emergenza. Poi è chiaro che ogni paese valuta in relazione alla propria situazione particolare, ovvero in base a quanto gli costa finanziare il proprio debito, oppure in relazione ai problemi nel sistema sanitario ecc. Al MES si può anche ricorrere in modo parziale. Ogni paese valuta in base alla propria condizione di fatto. Il ministro francese Bruno Le Maire ha detto che per ora non farà ricorso al MES. Ma in futuro potrebbe farlo. La logica dell’Unione europea di lasciare un largo margine di scelta.
G.P.: Tuttavia, contro il Mes vengono avanzate delle obiezioni pesantissime, che lasciano intravedere teorie cospirative, come il programma di ridurre l’Italia “come la Grecia”. La crisi greca è stata un momento importante che ha mutato il racconto nazionale dell’Europa, invertendolo completamente di segno. Se si considera che l’Italia e la Grecia si sono danneggiate reciprocamente – nel senso che l’incapacità di far fronte al debito della Grecia ha esposto l’Italia alla sfiducia dei mercati e al conseguente aumento dello spread e, viceversa, il debito italiano ha imposto che la soluzione della crisi greca non divenisse un precedente da utilizzare a favore del moral hazard – è paradossale che la generale ostilità dell’opinione pubblica italiana si sia diretta, però, contro l’Europa. Non è invece un paradosso che questa narrativa ostile sia stata poi capitalizzata dai populisti. Ma occorre cercare una strategia politica, comune alla destra come alla sinistra, e mi pare che il fine sia quello di far pressione sugli altri stati per arrivare a una sorta di mutualizzazione del debito. Adesso avrà visto la dichiarazione del presidente dell’europarlamento Sassoli che chiede di “cancellare il debito” della pandemia. Se fosse possibile, dovremmo dire che esiste il “pasto gratis”, e anche la pietra filosofale…
V.D.R.: Eh no, non esiste un pasto gratis. Per cancellare il debito di qualcuno occorre cancellare credito di qualcun altro. Se Sassoli si riferisce al debito europeo, questo annuncio peraltro non è una grande strategia di marketing, c’è da sperare che il dibattito resti solo italiano, perché, soprattutto in questo momento in cui l’Italia sta negoziando il Next Generation EU, dove dovrebbe ricevere circa 120 miliardi di debito, è destabilizzante. Ma è rivelativo che si chieda la cancellazione del debito quando invece si dovrebbe capire bene come spendere i soldi per far ripartire il paese e far crescere l’economia.
G.P.: Il rifiuto del MES è stato non a caso argomentato con l’obiezione che i soldi “si devono restituire” (secondo l’espressione del Presidente del consiglio Conte). Ma i soldi da non restituire sono forse quelli che si vorrebbe fossero stampati dalla Bce: che però non significa altro che spalmare su tutti i paesi europei i problemi italiani, senza metter mano a nessuna riforma.
V.D.R.: La maggior parte di questi soldi sono debiti europei. Nel fondo per la ricostruzione ci sono 750 miliardi, nei fondi per l’emergenza ci sono 540 miliardi. Chiaramente, tutti questi debiti andranno restituiti. Qual è allora il vantaggio rispetto ai debiti nazionali? Il vantaggio è, naturalmente, che si tratta di un debito europeo, più vantaggioso rispetto ai tassi dei debiti nazionali. Naturalmente, la convenienza c’è solo se i debiti nazionali sono più costosi. Il vantaggio non è uguale per tutti gli stati. Ad esempio, la Germania non ha una convenienza diretta da questi aiuti, per la semplice ragione che paga tassi negativi sul proprio debito. Diverso discorso per L’Italia. Bisogna poi dire che, usufruendo di questi programmi, l’Italia cambia per la prima volta status: da contributore netto diventa beneficiario netto, entrando così nel gruppo delle economie meno forti. Contributori netti sono ad esempio l’Olanda, la Francia, la Germania, mentre beneficiari netti sono Polonia, l’Ungheria, la Grecia. Voglio dire che, se davvero ci preoccupiamo di quale segnale daremmo ai mercati usufruendo del MES, non si capisce perché allora non ci siamo preoccupati del segnale che diamo diventando beneficiari netti. In realtà, dobbiamo lasciar stare il problema dei segnali, perché forse non sono il vero problema.
Tutti questi soldi vanno restituiti, l’importante è adesso utilizzarli per investimenti e riforme. Questo è il punto vero. Il loro vicolo di utilizzo è completamente diverso da quello dei fondi d’emergenza. Si tratta di soldi che devono essere utilizzati solo per investimenti e riforme, e devono avere un impatto sul PIL potenziale e sulla crescita. Dobbiamo saper spendere questi soldi.
Qui bisogna notare che, in questo periodo, la Bce sta comprando titoli di debito pubblico, ma questa politica non ha una durata illimitata. L’obiettivo della Bce resta la stabilità dei prezzi. La BCE prende delle decisioni in base a delle medie, se ci sono altri paesi che stanno andando meglio, la Bce dovrà ridimensionare questo programma. Arrivati a quel punto, le cose per noi cambiano, e dobbiamo essere pronti ad affrontare la nuova situazione, che diventerebbe davvero difficile se, senza aiuto della Bce e con un debito pubblico ancora più elevato, non avessimo investito bene questi soldi presi in prestito. La questione è tutta qui. I soldi che arrivano adesso dall’Europa vanno utilizzati per aumentare la crescita del nostro paese e ridurre così lo stock del debito.
G.P.: Si tratta di un punto dirimente. Naturalmente, da una politica più avveduta dell’Italia ci guadagnano tutti paesi europei, ed è altrettanto vero il rovescio, che un’Italia debole, indebolisce tutti.
V.D.R.: Certo, alla Germania conviene che l’Italia utilizzi bene i fondi. L’obiettivo, che dovrebbe interessare tutti i paesi, è quello di rendere l’Unione europea più forte, e resiliente anche nell’eventualità di un’altra crisi. Un’Europa forte rappresenta un vantaggio per la Germania, che è un paese esportatore. Il vantaggio della Germania è di condividere la moneta con dei paesi che stanno in buona salute.
G.P.: Chi ci guadagna invece dall’immobilità?
V.D.R.: I soldi del Next Generation EU servono per investimenti e riforme, ma nel dibatto italiano si parla molto di investimenti, mentre si parla molto poco delle riforme, che però sono la parte più importante. La ragione è che gli investimenti sono finanziati con soldi europei, ma le riforme, sebbene abbiano un costo finanziario basso, hanno un costo politico alto che viene pagato dai governi nazionali. E poiché il costo politico lo paga il governo italiano, nessun governo vuole fare le riforme. Di nuovo però, non ci possiamo più concedere il lusso di rimandare. Se vogliamo far fruttare questi soldi, sarà necessario metter mano alle riforme di cui si parla da tempo. L’Europa vuole un programma molto dettagliato, con una previsione sugli effetti. I progetti saranno osservati molto attentamente.
G.P.: Si ripete però spesso che l’austerità ha prodotto disastri in Italia. Ad esempio, la crisi della sanità emersa con l’epidemia è stata imputata ai tagli dei governi neoliberisti e all’austerità imposta dall’Europa. Ma c’è stata in generale una qualche forma di austerità in Italia?
V.D.R.: L’austerità non è un’imposizione dell’Europa. C’è stato un grande equivoco. L’austerità si rende necessaria se i mercati non sono più disposti a comprare il debito di uno stato. I mercati, ovvero gli investitori, grandi e piccoli investitori, non comprano più i titoli di stato, non finanziano più le finanze pubbliche quando non si fidano più. La crisi greca è cominciata così. Quando la spesa pubblica va fuori controllo, si deve intervenire attraverso il consolidamento fiscale e attraverso delle misure di austerità. Perché, ovviamente, i mercati non sono disposti a comprare il debito di un paese che non è palesemente in grado di restituire i soldi che ha chiesto in prestito. Non è, come si è detto, che c’è qualcuno ti obbliga all’austerità: puoi non farla, ma poi nessun investitore ti presta più soldi per la tua politica. In Italia, nel 2011, i mercati non hanno chiuso l’accesso come in Grecia, ma lo spread era alle stelle. Gli investitori erano ancora disposti a comprare il debito italiano solo in cambio di un rendimento molto alto. A quel punto, devi mettere ordine nei conti pubblici e rimettere a posto l’economia perché torni a crescere. Per crescere però occorre fare delle riforme.
Ci sono molti dati e studi su come si può fare “austerità”. C’è un’austerità, come dice Mario Draghi, buona, che significa tagliare le spese più improduttive, e c’è un’austerità cattiva, che è quella più facile, che consiste nell’aumentare le tasse, senza fare riforme. Ma si tratta di politiche nazionali dove l’Europa non c’entra molto. L’austerità in Italia c’è stata con il governo Monti nel 2012. Dopo Monti, però, l’austerità è finita. Con il governo Renzi, secondo la definizione dello stesso Renzi, la politica fiscale è stata “moderatamente espansiva”. Dunque, niente più austerità. Non è vero quello che viene comunemente detto, ovvero che gli ultimi 10 anni sono stati di austerità. I tagli sono la conseguenza delle politiche nazionali dei vari governi che si sono succeduti, che hanno deciso, ad esempio, di tagliare la sanità per aumentare la spesa previdenziale con una misura come quota 100. Ma questo non c’entra nulla con l’austerità.
G.P.: La sua analisi mi porta a una questione più generale. Si è polemizzato molto sullo statuto dell’economia come scienza. L’obiezione, sia di destra sia di sinistra, è che, se l’economia fosse una scienza, allora non ci sarebbe spazio per la decisione politica. Per dirla al modo dei filosofi: se l’economia descrivesse l’essere, non ci sarebbe spazio per il dover-essere. Serge Latouche, l’autore della “decrescita felice”, è arrivato a dire che l’economia scientifica è una mezza impostura, che è stata inventata per imporre delle scelte impopolari. Naturalmente, si dovrebbe discutere a lungo sulla definizione di scienza; l’impressione tuttavia è che, appunto, non ci si trovi davanti ad una questione “epistemologica” o di “filosofia della scienza”, ma alla necessità di delegittimare o di svuotare di oggettività i vincoli dell’economia a favore di una visione ideologica. Un modo di ragionare che mi ricorda la negazione della teoria di Darwin da parte dei creazionisti. Ora semplificando il punto, esistono scelte economiche di destra e di sinistra, ma esiste invece un’economia di destra accanto un’economia di sinistra?
V.D.R.: L’economia è una scienza sociale, che studia i comportamenti della società. Cerca di arrivare a delle previsioni con dei modelli, ma questo non ha impedito previsioni erronee. Anche se si usa la matematica, i fenomeni sociali non si risolvono solo nella matematica. Però questo non significa che possa esistere un’economia di destra e un’economia di sinistra. Naturalmente, esistono delle scelte economiche di destra e delle scelte economiche di sinistra. Ma io vedrei la questione da un altro punto di vista: l’alternativa tra politiche economica di destra o di sinistra, almeno in Italia, si è di fatto molto ridotta. E non perché la sinistra non fa la sinistra e la destra non fa la destra, bensì perché entrambe tendono a seguire la stessa politica economica, le scelte economiche tendono ad essere sempre le stesse. L’abbiamo detto: c’è una grande avversione verso le riforme per non pagarne il costo politico, prevale una visione corta che non guarda lontano. Alla fine, entrambe, destra e sinistra, si riducono all’utilizzo del debito. Perché è più facile. Ma i dati parlano chiaro: abbiamo un debito altissimo e una crescita zero. Qui c’è poco da lasciare all’interpretazione. Il punto critico è l’utilizzo della spesa pubblica come strumento clientelare: vale per gli 80 € di Renzi, come per il reddito di cittadinanza del M5stelle. Sono due misure diverse, sostenute da due partiti diversi, ma entrambe hanno come fine il consenso elettorale. Per motivi diversi, nessuna delle due ha avuto gli effetti sperati. Per cui non è più questione, in Italia, di destra e sinistra: la politica economica italiana si muove da anni sempre nella stessa direzione. Senza rendercene conto stiamo accumulando ritardi enormi, e nei momenti di crisi, come questo, ne paghiamo il conto. E non è vero, come dice il premier Conte, che questa è una crisi simmetrica. È vero che c’è uno shock comune, nel senso che tutti i paesi sono stati colpiti, ma è anche vero che l’impatto della crisi è stato asimmetrico. Alcuni paesi stanno reagendo meglio di altri. E anche qui c’è poco da discutere. Ieri sono uscite le previsioni della Commissione europea, che prevedono che la Germania riuscirà a recuperare le perdite già nel 2022. Perché? Perché la Germania, dal punto di vista dei conti pubblici, ha molto spazio fiscale. Inoltre, ha una struttura produttiva vitale. Noi invece paghiamo il fatto di avere un debito altissimo e una produttività bloccata da anni per mancanza di riforme. Tutto quello che noi abbiamo rimandato, con i governi di destra o con i governi di sinistra, ci porta oggi a pagare un conto sempre più alto.
G.P.: Insomma, la crisi italiana non è una crisi ciclica, come si può credere in chiave keynesiana, ma una crisi strutturale.
V.D.R.: Certo, assolutamente. La crisi italiana è una crisi strutturale. Vorrei aggiungere che con il virus avremo dei cambiamenti permanenti. Alcuni lavori spariranno, altri se ne creeranno. Per questo è necessario agire sulla formazione e sulla ricerca: tutti ambiti che, tanto la destra che la sinistra, hanno sempre trascurato. Quando siamo entrati nella crisi del virus eravamo l’unico paese che non aveva ancora recuperato il livello di reddito pro capite di prima della crisi finanziaria. Quando siamo stati colpiti dallo shock della pandemia abbiamo dovuto muoverci come se avessimo delle pietre sulla schiena. Una della conseguenza della crisi pandemica sarà la necessità di ristrutturare il nostro mercato del lavoro in modo molto più significativo di come non sia stato fatto fin qui. Devono essere realizzati investimenti sulla formazione e sulla scuola, tutte cose che non abbiamo mai fatto.
G.P.: Immagino già quale sarà la risposta, ma la domanda non posso non porla: chi pagherà davvero la crisi politico-economica italiana?
V.D.R.: La risposta, come immagina, è: i giovani. Sono i giovani che pagano di più la crisi economica italiana. Già nelle crisi precedenti erano i più penalizzati. Eppure, si è scelto di investire su misure come quota 100. La Caritas ha pubblicato un rapporto drammatico sulle donne sole con figli a carico: sono i nuovi poveri. Poi sono i giovani che dovranno farsi carico in futuro dei costi del debito. Bisogna evitare di fare gli errori del passato. Non dobbiamo mettere i soldi dove non servono. Attenzione, questo non significa che i pensionati sono ricchi, ma significa che, in termini relativi, i soldi vanno investiti nel futuro e nei giovani. Questa volta non dobbiamo sbagliare, perché abbiamo davanti una generazione che sta pagando, che pagherà ancora di più, un prezzo altissimo, come si vede dal drammatico aumento delle diseguaglianze.
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Giovanni Perazzoli è autore di Benedetto Croce e il diritto positivo. Sulla realtà del diritto, Il Mulino, 2010, Contro la Miseria. Viaggio nell’Europa del nuovo welfare, Laterza 2014, Filosofia e laicità, Mimesis, 2010. PhD in filosofia a Pisa, ha studiato a Freiburg im Breisgau, ed è stato borsista delI’Istituto Italiano per gli Studi Storici. Ha lavorato a lungo come autore televisivo per la Rai, nella redazione della rivista MicroMega, collabora con riviste ed editori. Vive in Olanda, dirige Filosofia.it
Veronica De Romanis ha studiato economia all’Università La Sapienza di Roma e alla Columbia University di New York. È stata membro del Consiglio degli Esperti presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, occupandosi principalmente di macroeconomia e finanza pubblica. È stata anche responsabile dei rapporti con l’Eurostat, la Commissione Europea, l’Ocse e il Fondo Monetario Internazionale. Attualmente, insegna Politica Economica Europea alla Stanford University (The Breyer Center for Overseas Studies) a Firenze, alla Facoltà di Scienze Politiche e al Master di Business Administration della Libera Università degli Studi Sociali Guido Carli (Luiss) di Roma. È stata membro del Dipartimento di Economia del Comitato scientifico della Fondazione Einaudi. Ha pubblicato Il Metodo Merkel (2009, Marsilio editori), Il Caso Germania (2013, Marsilio editori) e L’Austerità fa Crescere (2017, Marsilio editori).