di stefano passigli
La proposta di Enrico Letta di integrare l’imposta di successione con un’addizionale sui patrimoni superiori ai 5 milioni per concedere a ogni diciottenne 10.000,00 euro non deve né spaventare né scandalizzare. Innanzitutto, la misura, limitata ad un periodo di cinque anni, ipotizzando 1.400.000 giovani, avrebbe un costo complessivo di 14 miliardi, una somma pari al gettito dell’imposta di successione francese in un solo anno.
Dal punto di vista delle successioni e donazioni l’Italia è infatti un vero paradiso fiscale: le successioni in linea retta sono tassate al 4% con una franchigia di un milione di euro per erede. Il gettito complessivo è di 820 milioni all’anno. In Francia l’aliquota sale fino al 45% con un gettito di 14 miliardi annui; nel Regno Unito l’aliquota giunge al 40%, in Germania al 30%, in Spagna al 34%. Negli Stati Uniti, spesso presi ad esempio di orientamento liberale e di equo sistema fiscale, le imposte sul reddito sono più basse che in Europa ma l’imposta di successione va dal 37 al 55%.
La scelta degli Stati Uniti non deve sorprendere: introdotta in Francia alla fine del ‘700, la tassa di successione è strettamente legata nella sua origine al pensiero liberale e trovò uno dei suoi principali assertori nel grande filosofo ed economista Stuart Mill. In Italia sei sul sette degli Stati pre-unitari, con la sola eccezione del Regno delle Due Sicilie, avevano già introdotto una qualche imposta di successione. Ma è dopo l’Unità, nel 1862, che l’imposta venne introdotta su tutto il territorio nazionale dai governi della Destra Storica, e resa progressiva in epoca giolittiana. Si tratta insomma di un’imposta voluta in tutta Europa dai governi liberali in base al principio di rendere se non paritarie, almeno tendenzialmente eque, le condizioni di partenza dei vari cittadini. Revocata dal fascismo, la progressività nell’imposta di successione fu reintrodotta dalla Repubblica con alterne vicende, ma sempre con aliquote basse e con un gettito esiguo sino ad essere definitivamente abolita nel 2001 da Berlusconi. Senza la progressività, sancita nella nostra costituzione come principio di equità a base dell’imposizione fiscale, i piccoli patrimoni sono colpiti in maniera uguale alle grandi fortune.
La proposta di Letta si situa dunque in continuità con una linea di pensiero liberale, alla quale si è opposta una linea di puro conservatorismo economico. Il pensiero liberale vuole basse imposte sul reddito, compensate da imposte progressive sul patrimonio, per stimolare l’attività economica e l’imprenditoria individuale, mantenendo il più possibile eque condizioni di partenza. Il pensiero conservatore invece penalizza il profitto e lo spirito di intrapresa, e premia la rendita. Pensata come una temporanea addizionale all’imposta anziché come una nuova tassa, la proposta di Letta appare insomma un elementare misura di giustizia sociale che non ostacola una trasmissione sostanzialmente immutata del patrimonio familiare.
Vista in questa luce, il presidente Draghi – che si autodefinisce liberalsocialista – non dovrebbe avere difficoltà ad accettarla. Il premier ha affermato che i nostri sono tempi in cui “non si tratta di prendere soldi dai cittadini ma di darli”. Appunto, di darli a chi ne ha più bisogno, cioè quei giovani che il Covid ha gravato di un ulteriore aumento del nostro debito pubblico a cui dovranno far fronte nella loro vita. Senza un trasferimento a loro sostegno lo Stato permetterebbe che il debito gravasse interamente sulle loro spalle, prendendo risorse alle future generazioni per distribuirle all’attuale. Non credo che sia questo il pensiero di Draghi.
(dal corriere della sera, 22 maggio 2021)