di maurizio fumo
Partiamo dal presupposto che un governo e la sua maggioranza, fino a prova del contrario, non progettano riforme inutili. Ogni mutamento legislativo ha (o dovrebbe avere) una sua ratio: deve insomma mirare a uno scopo pratico da raggiungere, deve proporsi di ottenere un risultato; utile o dannoso, secondo i punti di vista.
Fatta questa premessa, appare lecito chiedersi quale sia la ragione per la quale si vuole separare la “carriera” del PM da quella del magistrato giudicante.
La domanda è tutt’altro che oziosa, dal momento che, con la c.d. “Riforma Cartabia”, è stata introdotta una separazione delle funzioni (giudicanti e requirenti) che rende di fatto quasi impossibile il passaggio di un magistrato da un ruolo all’altro. Infatti tale passaggio può avvenire una sola volta nel corso di tutta la vita professionale e comporta che chi cambia funzione debba cambiare anche corte di appello, il che, il più delle volte, determina anche che si debba andare ad abitare in altra regione (sono poche le regioni nei cui confini vi siano più corti di appello).
L’effetto di tale assetto era prevedibile (ed, evidentemente, auspicato): le richieste di cambio di funzione si sono praticamente azzerate. E ciò ha inevitabilmente portato, non solo a nostro parere, a un impoverimento del livello professionale. Infatti, come ebbe inutilmente a scrivere sul Corriere il 18/2/2022 il prof. avv. Franco Coppi (che, non dimentichiamolo, fu tra i difensori di Berlusconi), “lo scambio di esperienze [tra giudici e PM ovviamente] aiuta a interpretare il singolo ruolo”.
Ma pazienza: ormai è cosa fatta.
E allora perché insistere nel voler separare le “carriere”, essendo più che sufficiente aver separato “le funzioni”? Deve esserci uno scopo non dichiarato. Noi che siamo malpensanti continuiamo a credere – nonostante lo si neghi expressis verbis – che si voglia realizzare “l’aggancio” (se non proprio la sottomissione) del PM ai desiderata della maggioranza e, attraverso essa, al potere esecutivo.
Lo scopriremo analizzando (rapidamente) le varie ipotesi che si sono succedute in Parlamento, ma prima smontiamo un argomento apparentemente suggestivo. Si dice: la separazione delle carriere è il presupposto del codice di procedura del 1988 ed è implicita nell’art. 111 della Costituzione il quale vuole un processo che si svolga nel contraddittorio delle parti, davanti a un giudice terzo e imparziale. Ebbene – dicono i nuovi aspiranti costituenti – un giudice non è terzo se è “collega” del PM. Ora, a parte il fatto che l’art. 111 fu riscritto nel 1999 (cioè 11 anni dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito) e che, in quella occasione, il legislatore costituzionale ben avrebbe potuto operare la agognata (da taluni) separazione, resta il fatto che la terzietà, come mero dato aritmetico, è del tutto insignificante: si può essere terzi, ma non indipendenti né imparziali. La terzietà, a ben vedere, è un attributo dell’imparzialità. Si è terzi perché imparziali, non il contrario. Dunque “giudice terzo e imparziale” è un’endiadi. L’imparzialità è garantita, sul piano strutturale, dall’ingresso in magistratura solo per concorso (dunque non per nomina), sul piano funzionale dalla natura del processo accusatorio in quanto la prova si forma innanzi al giudice (cui è noto solo il capo di imputazione e il contenuto dei cc.dd. “atti irripetibili”), nel contraddittorio – appunto – delle parti.
Ma torniamo alle ipotesi di modifica della Costituzione volte a realizzare la (superflua?) separazione delle carriere.
Cominciamo dall’ultima, il disegno di legge costituzionale di iniziativa governativa n. 1917 (chiamiamola ipotesi Nordio). Esso appare il più stringato (quasi una legge-quadro) e, se vogliamo, il più moderato. Prevede: carriere separate, 2 CSM distinti (uno per i giudici e uno per i PM) cui si accede non per elezione, ma per sorteggio. A questi 2 organi di (residuo) autogoverno è sottratta la giustizia disciplinare, incardinata viceversa in un’alta corte disciplinare, composta da giuristi, in parte, nominati dal Presidente della Repubblica e, in parte, estratti a sorte (anche questa volta) tra liste di “personaggi” selezionati dal Parlamento e di magistrati di cassazione (o che in cassazione abbiano già prestato servizio).
Il disegno di legge governativo è stato preceduto dalle proposte di legge costituzionale n. 23 (Costa e altri), n. 434 (Giachetti), n. 806 (Calderone e altri), n. 824 (Morrone), in gran parte tra loro sovrapponibili e molto più incisive dell’ipotesi Nordio, in quanto prevedono anche: a) che sia il Parlamento a decidere in che ordine si debbano trattare gli affari penali (cioè l’ordine in cui i reati vanno perseguiti), b) la possibilità di “arricchire” i collegi giudicanti in primo, secondo e terzo grado con l’innesto (in numero imprecisato) di avvocati e professori universitari scelti dal Parlamento (cioè dai partiti); costoro dunque potrebbero “diventare” giudici (senza aver superato il concorso) a differenza di chi è stato PM che rimarrebbe relegato per sempre nel suo ruolo (perché portatore di una visione di parte; invece gli avvocati ….).
Il fatto è che anche se, come prevedibile, sarà l’ipotesi Nordio a costituire la base di discussione ed elaborazione dell’apartheid giudiziario, nulla vieta che poi, con legge ordinaria, si possano introdurre anche le riforme auspicate da Costa-Giachetti-Calderone-Morrone & soci. Infatti, incidendo sul codice di procedura penale, sulle norme di attuazione dello stesso e sull’ordinamento giudiziario (corpus normativo più e più volte rimaneggiato e manomesso), si può togliere all’ufficio del PM l’iniziativa della promozione dell’azione penale, “indicandogli” quali reati “privilegiare” e quali trascurare (magari fino alla prescrizione); inoltre, come si è visto, si potrebbero “annacquare” i collegi giudicanti con “laici” di fiducia dei vari partiti, in proporzione delle rispettive rappresentanze parlamentari: insomma una logica non dissimile dalla lottizzazione RAI.
Ora, in relazione a tale seconda, raccapricciante ipotesi, non c’è nulla da aggiungere: essa si commenta da sé; quanto alla prima, è il caso di ricordare che l’ordinamento vigente già prevede in che ordine si debbano trattare i processi penali. Infatti l’art. 132-bis delle norme di attuazione del cpp stabilisce, in via astratta e generale, un ordine di priorità (prima i delitti di terrorismo e criminalità organizzata, quelli contro la personalità dello Stato, la strage, l’omicidio volontario, le violenze sessuali e, “a scendere”, gli altri in ordine di gravità oggettiva). Affidare, viceversa, al Parlamento il compito di stabilire tale ordine, significa subordinare l’esercizio dell’azione penale al mutare delle maggioranze. E allora, a puro titolo di – non casuale – esempio, le Camere potrebbero ordinare agli uffici di Procura di perseguire prima scippatori, rapinatori, clandestini e spacciatori e solo dopo (se avanza tempo) bancarottieri, corrotti e corruttori, inquinatori e così via.
È poi tutt’altro che improbabile che venga accentuata la verticizzazione (e quindi la gerarchizzazione) degli uffici di Procura. La logica del premierato, in ultima analisi, proprio questo comporta! E allora, con un procuratore-capo grato e compiacente, con l’ordine dell’azione penale indicato dal Parlamento, con la massiccia presenza nei collegi giudicanti di laici designati dal potere politico è evidente che non c’è alcun bisogno di sottomettere “formalmente” il PM all’esecutivo.
Il disegno è chiaro e solo chi non vuol vederlo non lo vede: risulterebbe minata, di fatto, la separazione dei poteri.
Prioritaria però, per realizzare questa ambiziosa ed eversiva innovazione, è la separazione delle carriere perché occorre sganciare il PM dall’ordine giudiziario (al di là dell’etichetta che gli rimarrebbe): bisogna che si senta “altro” dal magistrato giudicante, che si percepisca come separato e diverso e, in apparenza, titolare di un potere accresciuto e partecipe di una logica e di una funzione aggressivamente accusatoria.
Fanno poi sorridere le giustificazioni “di immagine” che forniscono gli aspiranti riformatori: 1) “pare brutto” (come si dice a sud del Garigliano) che PM e giudice appartengano allo stesso ordine: la terzietà deve anche essere apparente, per Bacco! Ma allora “pare” (ancora più) “brutto” anche che il giudice di appello appartenga allo stesso ordine del giudice di primo grado e che la stessa comunanza riguardi il giudice di cassazione. Saranno davvero imparziali nel giudicare l’operato dei loro colleghi? Forse non è lontano il tempo in cui si proporranno concorsi separati per giudici di Tribunale, di Corte di appello e di Corte di Cassazione.
Meglio dirlo sottovoce però, altrimenti Nordio potrebbe fare sua questa simpatica idea.
Infine un’ultima parola sul sorteggio che dovrebbe tagliare le unghie alle correnti. Ma chi garantisce che un magistrato che accede al CSM per sorteggio e non per elezione perda la sua “carica correntizia”? Semplicemente la composizione di questo importante Organo sarà determinata non dalla volontà degli elettori, ma dal caso e dunque sarà la sorte a stabilire i rapporti di forza (scil. la proporzione tra i rappresentati delle varie correnti) all’interno del CSM; tali rapporti tuttavia continueranno ad esistere. Occorrerebbe, viceversa, per stroncare il “mercato delle nomine”, una normativa stringente che regolamenti tempi e modalità delle nomine stesse, evitando che alcuni uffici giudiziari rimangano scoperti per mesi, in attesa che se ne scoprano altri per poter operare utili “scambi” – appunto – tra le correnti.
Soluzione elementare, ma di scarso impatto mediatico e quindi non spendibile presso un elettorato ben poco informato.
[ anticipazione dal prossimo numero del “Nonmollare” n. 157]