di pietro polito
L’Italia, l’Europa, il mondo sono alle prese con il rischio di una barbarie ritornata. Un rischio globale che impegna direttamente la cultura prima ancora che la politica. Una cultura che, per ora, sembra tristemente assente dal dibattito politico. Tanto che a ragione si è ancora una volta parlato di tramonto degli intellettuali[1].
Non appartengo al folto esercito degli ottimisti. L’avvenire immediato è cupo e quello lontano non è roseo. Ad un amico più giovane che mi invita ad uscire da una visione più ampia e da un approccio più astratto, che mi sono naturali e più congeniali, e ad espormi su un piano più personale, rispondo che le cose che non so sono di più di quelle che so.
Non so se le misure di contenimento del contagio siano giuste. Non so se vale la pena di pagarne il prezzo. Non so se e entro quali tempi raggiungeranno l’esito sperato. Non so se si manterranno nell’ambito delle regole democratiche o andranno in rotta di collisione con la nostra Costituzione. Non so se dopo la grande paura saremo migliori o peggiori. Non so se nulla sarà più come prima o se tutto continuerà come prima. Sapremo mantenere la promessa più volte ripetuta in questi giorni che non ci sarà alcun oblio?
Ad esempio, se David Grossman immagina che il nostro futuro dopo l’epidemia sarà all’insegna di nuove priorità e che diremo addio al superfluo e sì alla tenerezza[2], Paolo Giordano paventa il pericolo dell’oblio quando inizierà la ricostruzione se “non osiamo riflettere ora su ciò che non vorremmo ritornasse uguale”[3]. In realtà, lo scenario positivo è nelle nostre mani ma sono mani che hanno preparato e avvicinato lo scenario negativo.
L’auspicio è che la cultura dimostri la capacità di entrare in un dialogo innovativo e spesso sorprendente con la classe politica sui temi fondamentali del nostro tempo: l’ambiente, la salute, il lavoro, il benessere, la relazione sociale, la vita e la morte. Non c’è da farsi soverchie illusioni. L’accesso alla cultura non ci rende necessariamente persone migliori. Ma ci dà, se vogliamo, la possibilità di sviluppare abilità e competenze che possono renderci capaci di creare valore sociale e anche economico.
Se cessiamo di concepirla come una forma di evasione e iniziamo a considerarla un fattore fondamentale di cittadinanza attiva, la cultura può darci la possibilità, perché non dirlo, di produrre umanità, una nuova etica, di cui dovremo tutti un giorno ricordarci. In giro per l’Italia, ci sono tante piccole comunità di idee e valori che, spesso in modo silenzioso ma con una straordinaria determinazione, provano a coniugare questo modo di pensare, sperimentando forme di solidarietà concreta e operosa. Una Italia civile d’antica memoria, in cui ci si può insieme riconoscere e su cui si può costruire. Perché non gli diamo voce, spazio, potere?
Le ragioni storiche e civili della tutela e della valorizzazione del patrimonio, storico, culturale, ambientale riguardano tutte e tutti, interpellano in primo luogo le cittadine e i cittadini con le loro diverse forme di associazionismo, volontariato, impegno sociale e civile. Forse il principale compito della cultura oggi è quello di promuovere una “azione popolare” per la salvaguardia di se stessa analoga a quella auspicata da Salvatore Settis per la tutela del patrimonio naturale e artistico.
Confesso che in questi giorni, così surreali da non sembrare veri, mi sforzo di tenere a freno il pessimismo ereditato dai maestri. Con il grande cantautore che ascolto ossessivamente, confesso il desiderio che si presenti l’occasione di acquistare un paio d’ali e abbandonare il pianeta. E, confessione per confessione, ne faccio un’altra, che faccio in primo luogo a me stesso: confesso che ho paura.
All’inizio di una crisi planetaria di cui non conosciamo né la durata né la fine, Piero Gobetti ci parla ancora. Le parole che egli scrive in La nostra fede (5 maggio 1919) sono quanto mai adatte al tempo che viviamo. La prima guerra mondiale si era da poco conclusa, quando Gobetti scriveva che l’indifferenza “pervade ed irrigidisce la vita d’oggi”, contrapponendogli “questa passione profonda – che non diventa abitudine, e neppure azione inconsulta, ma resta normalità intensa, conquista progressiva e non intermittente o frammentaria”. L’indifferenza è una “malattia che consuma ed uccide, bassezza per cui i nervi si rompono all’atto stesso della loro funzione. Tutta la vita moderna è estenuata da questa spaventosa anemia”. La distinzione tra indifferenza e impegno coincide con quella tra immoralità e moralità: “Non può essere morale chi è indifferente. L’onestà consiste nell’avere idee, e credervi e farne centro e scopo di se stesso. L’apatia è negazione di umanità, abbassamento di se stessi, assenza di idealità”[4]. Non siamo indifferenti perché sappiamo di non sapere e non perché presumiamo di conoscere la verità.
Questo articolo vorrebbe essere una specie di messaggio nella bottiglia, un appello alla cultura contro la paura. Lo so che c’è paura e paura. La paura, s’intende la paura che scaturisce dall’ignoranza, separa, isola, rinchiude, la cultura, s’intende la cultura che si basa sulla conoscenza, connette, avvicina, apre[5]. Se non smarriamo la nostra umanità, se usiamo il nostro pensiero razionale, i lettori torneranno nelle biblioteche e nelle librerie, gli studenti nelle scuole, gli appassionati riprenderanno a frequentare i musei, i cinema, i teatri, i concerti, le conferenze, i seminari, i convegni, gli incontri, le presentazioni di libri, i festival e gli eventi culturali. Ricomincerà la vita.
NOTE
[1] Sabino Cassese, Il tramonto degli intellettuali, “Il Foglio Quotidiano”, a. XXV, n. 64, lunedì 16 marzo 2020, pp. I e IV. Si tratta della relazione su “Il ruolo degli intellettuali nella società” che l’autore presenterà, a Torino, in novembre, all’interno del ciclo “Gli intellettuali e la stampa”, promosso dall’Accademia delle Scienze di Torino, in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti del Piemonte.
[2] D. Grossman, Dopo la peste torneremo a essere umani, “la Repubblica”, a. 45, n. 68, venerdì 20 marzo 2020, pp. 38-39.
[3] P. Giordano, Il virus, il dopo e quello che non voglio scordare, “Corriere della Sera”, a. 145, n. 69, sabato 21 marzo 2020, pp. 1.2.
[4] P. Gobetti, La nostra fede, in “Energie Nove”, serie II, n.1, 5 maggio 1919, p.1-8.
[5] “Ma una cosa la so: ho paura, e me ne vanto. Ho il diritto di avere paura e so che la paura può salvare la vita perché accende campanelli di allarme, ti mostra i rischi, ti rende consapevole delle conseguenze di fare e non fare”. Cito dalla lettera di Giorgia, testo raccolto da Giusi Fasano, pubblicata con il titolo Ho il diritto di avere paura, in “Corriere della Sera”, a. 145, n. 172, mercoledì 25 marzo 2020, p. 19.
Un articolo di eccezionale interesse, con una valutazione obiettiva del periodo che stiamo vivendo che invita a conservare coraggio e capacità di reazione ai pericoli della nostra generazione e di quelle che seguiranno.