LE NORDATE HANNO POCO DI LIBERALE

di maurizio fumo

Nordio non smette di stupirci con le sue esternazioni. Difficile selezionare quelle più (tragicamente) divertenti. Questa volta occupiamoci di intercettazioni e dei delitti di corruzione.

In sintesi il Nostro ha affermato: a) che le intercettazioni non sono prove ma mezzi di ricerca della prova (da ultimo: L’IDENTITA’ del 21 dicembre), b) che esse si concedono e si eseguono (in Italia) sulla base di semplici sospetti, c) che, nelle indagini sui reati di mafia, sono inutili perché i mafiosi non parlano per telefono (IL FATTO QUOTIDIANO 21 dicembre), d) che il loro principale utilizzo consiste nel rovinare la reputazione di persone estranee ai reati per i quali si procede (lo dice in pratica in tutte le interviste che rilascia), e) che è inutile, anzi dannoso, punire il corruttore, al quale bisogna, viceversa, assicurare l’impunità, così lo si invoglia a collaborare e a denunziare il corrotto (tra le tante: LA STAMPA 7 dicembre).

Ebbene, di fronte a una tale raffica di bizzarre affermazioni si resta interdetti e la prima reazione potrebbe esser quella di liquidarle con un’alzata di spalle, ma, poiché non si tratta di chiacchiere da bar (anche se …), ma di dichiarazioni ufficiali di chi è stato chiamato a guidare uno dei Ministeri più importanti, si impone una risposta, come si dice, “nel merito”, cioè con testi di legge e pronunce della Cassazione alla mano. Il fatto è che Carlo, Fratello d’Italia, dice (e ripete) di essere un liberale, ma sembra fare un utilizzo disinvolto del caveat di un vero liberale: “conosce per deliberare”. In effetti il nordico ministro di Giustizia è da un bel po’ che – evidentemente – non sfoglia i codici e non segue l’evoluzione giurisprudenziale. Oppure se ne infischia. Vediamo come e perché. Prometto che mi sforzerò di non annoiare il lettore con troppi tecnicismi, anche perché, già a prima vista, sembrerebbe sufficiente il senso comune per smentire queste “nordate”.

Effettivamente nel codice di procedura penale si tratta delle intercettazioni al capo quarto del libro terzo, intitolato “mezzi di ricerca delle prove” e non è dubbio che le intercettazioni, quando sono disposte ed espletate, questo sono: mezzi di ricerca delle prove. Ma una volta eseguite, una volta cioè che le voci degli intercettati sono state captate e registrate, cosa sono quelle conversazioni, se non prove? Provano che quelle persone, in quel momento, hanno detto quelle cose. Per fare un esempio che renda più comprensibile il discorso: la perquisizione è un mezzo di ricerca della prova, ma una volta eseguita, se dà luogo a un sequestro, la cosa sequestrata è – appunto – una prova (quel tipo di sequestro si qualifica, infatti, sequestro probatorio). È pur vero che tra perquisizione e sequestro vi è una cesura temporale (la polizia perquisisce, cioè ricerca, trova e poi sequestra), mentre, nel caso delle intercettazioni, la differenza non è cronologica, ma solo logica: nello stesso momento in cui si svolge la conversazione, le voci vengono registrate (non a caso le intercettazioni sono state immaginificamente definite “sequestro di parole”). Le conversazioni acquisite sono prove perché sono comunicazioni interpersonali aventi ad oggetto fatti, racconti di fatti, propositi, riferimenti ecc. Possibile che il ministro non abbia compreso questa (basilare) verità? Che entri in crisi davanti a un elementare problemino logico? Lo ha compreso, viceversa, per tempo la Corte di cassazione, le cui Sezioni unite, nel 2015 (sentenza 22471) hanno chiarito che le dichiarazioni auto ed etero accusatorie, registrate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata, hanno piena valenza probatoria e, pur dovendo essere attentamente interpretate e valutate, non necessitano di altri elementi di corroborazione. Insomma: una sorta di “testimonianza inconsapevole” rilasciata fuori dal processo, ma acquisibile al processo. E non è che questo principio sia stato enunciato per la prima volta nel 2015: è dal 2001 (21 anni fa!) che le singole sezioni lo affermano ed è stato poi ribadito, da ultimo, nel 2019. Viene da chiedersi che cosa leggeva Nordio nel frattempo. Forse il programma di Forza Italia, con un’aggiunta personale, sintomatica di un singolare salto logico, in base al quale la diffusione delle conversazioni intercettate renderebbe “l’azione penale arbitraria e capricciosa” (IL DOMANI del 7 dicembre).

Veniamo alla seconda perla di saggezza giuridica. L’art. 267 del codice di procedura chiarisce che il GIP concede al PM (che la chiede) l’intercettazione “quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini”. Dunque non può essere concessa sulla base di informazioni confidenziali, gossip, pettegolezzi o sentito dire e, se ciò accadesse, i risultati sarebbero processualmente inutilizzabili (Cassazione, sentenza 39766 del 2014); va poi chiarito che i gravi indizi non attengono necessariamente alla colpevolezza di un determinato soggetto, ma alla esistenza di uno o più reati (Cassazione, sentenza 42763 del 2015). È quindi ovvio che non si intercetta solo e sempre l’indagato, ma può essere intercettato anche un terzo, magari la vittima. Si pensi a un’estorsione, si pensi a reati commessi in territori dominati dall’omertà mafiosa. E con ciò, possiamo dire, sono contrastate le altre incaute affermazioni del ministro, vale a dire: le intercettazioni vengono eseguite per rovinare la reputazione delle persone, le intercettazioni, il più delle volte, sono inutili (IL MESSAGGERO, 7 dicembre). Evidentemente il legislatore è stato di altra opinione se, addirittura, per i processi di criminalità organizzata, ha dettato una normativa particolare in tema di intercettazioni (art. 13 del decreto legge 152 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991). Ma poi non è affatto vero che mafiosi, camorristi e ‘ndranghetari non parlino dei fatti loro per telefono; centinaia di indagini e processi provano il contrario. Peraltro al ministro sfugge (quando vuole che sfugga) che, accanto alle intercettazioni telefoniche, esistono quelle ambientali (come gli ha fatto presente IL FATTO QUOTIDIANO del 23 dicembre).

Davvero sembra superfluo continuare a contrastare affermazioni di questo genere, prive di riscontri sul piano dei fatti e smentite dalle norme di legge vigenti e dall’interpretazione del massimo organo giusdicente.

Quanto all’ultima proposta (impunità per i corruttori), c’è da rimanere senza parole. Sul punto al ministro ha già risposto il Procuratore della Repubblica di Perugia, Raffaele Cantone, ricordando che esiste l’art. 323 bis, inserito nel 2019 nel codice penale, che prevede la non punibilità del corruttore che, ancor prima di aver saputo che nei suoi confronti sono in corso indagini e comunque non oltre quattro mesi dalla commissione del fatto, lo renda volontariamente noto alla Polizia o al PM e si attivi per fornire prove e individuare i complici (lo ha ribadito, da ultimo, Spataro su LA STAMPA del 23 dicembre). Ma Nordio, a quanto pare, vuole molto di più: impunità assoluta e incondizionata, quindi: corrompete pure. Se vi va bene, otterrete i vantaggi della corruzione, se vi va male, vuotate il sacco e la fate franca; paga solo il vostro complice corrotto.

E qui non esistono articoli di legge o sentenze per contrastare questi vaneggiamenti, che non si sa bene per qual motivo, vengono etichettati – l’ho già detto – come riconducibili al pensiero liberale. Preferiamo viceversa riportare il pensiero di un avvocato di un certo spessore che ha affermato, senza mezzi termini, che “la tecnologia va impiegata in tutte le sue possibilità, quando si tratta di scoprire reati, con l’accortezza di evitare abusi” (Franco Coppi su LA STAMPA del 7 dicembre). Questo si che ci sembra consonante con i principi della liberaldemocrazia.

  1. Continua ….

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