Quarta edizione del “Premio Critica liberale sulla Libertà”
Il premio sulla Libertà di quest’anno è stato assegnato al
MOVIMENTO DELLE DONNE IRANIANE
“DONNA, VITA, LIBERTÀ”
Il Premio è stato consegnato a Farian Sabahi
(docente di Storia contemporanea del Medio Oriente)
VIDEO MESSAGGIO DI FARIAN SABAHI
Buon pomeriggio a tutti, sono Farian Sabahi, ricercatrice senior in Storia contemporanea presso l’Università dell’Insubria, dove insegno un corso e due seminari sul Medio Oriente.
Come giornalista professionista, sono trent’anni che mi occupo di Iran per le radio, le televisioni, e la carta stampata.
Innanzitutto, vorrei ringraziare Critica liberale per questo premio al movimento iraniano Donna vita libertà.
A innescare le proteste era stata la morte della ventiduenne di etnia curda Mahsa Amini il 16 settembre. Era originaria di Saqqez, nella provincia del Kurdistan iraniano. Studentessa di biotecnologie, si era recata nella capitale prima dell’inizio dell’anno accademico per qualche giorno di vacanza con i genitori e il fratello minore.
Il 13 settembre era stata fermata dalla polizia morale all’uscita della metropolitana. Come avviene in genere in questi casi, era stata portata in un centro di rieducazione per malvelate e lì è deceduta tre giorni dopo, a causa delle percosse.
La sua morte ha scatenato rabbia, anche tra le minoranze etniche (curdi in primis, ma anche i baluci nel sudest), da sempre discriminate perché non è loro consentito usare le loro lingue e i loro dialetti in ambito scolastico e i loro rappresentanti non possono aspirare alle massime cariche dello stato.
Sono molte le violazioni dei diritti umani documentate nella Repubblica islamica dell’Iran nei dodici mesi di proteste del movimento Donna, vita, libertà.
Processi sommari. Giovani donne arrestate, picchiate, bendate con quegli stessi veli che avevano fatto scivolare sulle spalle in segno di dissenso, stuprate con oggetti metallici, accecate deliberatamente dai proiettili dei poliziotti. Ragazzi fermati dalle forze dell’ordine, frustati, sottoposti a elettroshock, appesi a testa in giù, violentati, impiccati.
Negli ultimi tempi le proteste hanno perso vigore, cedendo il passo alla disobbedienza civile: donne di ogni età si tolgono il foulard negli spazi pubblici. Di pari passo, tanti negozianti le accolgono nei loro esercizi commerciali, rischiando di vedersi ritirata la licenza. Le autorità non cedono sull’obbligo del velo, perché fu imposto dall’ayatollah Khomeini, il fondatore della Repubblica islamica, all’indomani della rivoluzione del 1979. Per obbligare le iraniane a indossare il velo, il parlamento ha elaborato la proposta di legge “Hejab e castità”.
Secondo indiscrezioni pubblicate dal quotidiano riformista Etemad, la proposta di legge vieterebbe l’applicazione di unghie lunghe artificiali, manicure e pedicure per studenti e insegnanti; imporrebbe il chador nelle scuole e nelle università (in questi decenni è stato sufficiente coprire i capelli); prevederebbe la dotazione ai miliziani di spray al peperoncino e taser, le pistole a scariche elettriche.
Se le proteste hanno perso vigore, il regime non sembra arretrare.
Le autorità si fanno forza di un contesto geopolitico in cui a dare manforte ad ayatollah e pasdaran sono Cina, Russia e – nella regione mediorientale – l’Arabia Saudita con cui i rapporti diplomatici sono migliorati lo scorso marzo grazie alla mediazione di Pechino. E non è da sottovalutare il fatto che ad agosto 2023 le esportazioni di petrolio iraniano abbiamo toccato, con 2,2 milioni di barili al giorno, la punta massima, per la prima volta dall’inasprimento delle sanzioni internazionali deciso dal presidente statunitense Donald Trump nel maggio 2018. Inoltre, l’Iran è tra i pochi paese del cartello dei produttori di petrolio, l’Opec, in grado di aumentare la produzione pur restando nella quota prevista.
Ba poshtekar vuol dire «Con tenacia», in persiano.
Ed è questo il tratto che contraddistingue il movimento Donna vita libertà, e anche l’attivista e giornalista Nargues Mohammadi a cui andrà il Nobel per la pace 2023 per «la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per promuovere i diritti umani e le libertà per tutti».
Attualmente in carcere a Teheran, Nargues Mohammadi sconta una condanna a dieci anni per «diffusione di propaganda antistatale». Nonostante le tante difficoltà, non ha mai mollato.
E dal carcere si è unita alle proteste del movimento Donna vita libertà. Il 14 settembre era riuscita a far uscire di cella una lettera, pubblicata dall’agenzia AFP, in cui scriveva che «il processo di democrazia, libertà e uguaglianza innescato dalle proteste è ormai irreversibile».
Due giorni dopo, in occasione dell’anniversario della morte di Mahsa Amini, insieme ad altre tre detenute aveva approfittato dell’ora d’aria per togliersi il velo nel cortile della prigione, mostrare una montagna di riccioli neri e dare fuoco a quel pezzo di stoffa reso obbligatorio dall’ayatollah Khomeini all’indomani della rivoluzione del 1979.
Cinquantun anni, Nargues Mohammadi ha studiato Fisica per poi diventare ingegnere. Di pari passo, ha iniziato a scrivere di diritti umani su diverse testate.
È una delle più importanti attiviste per i diritti umani dell’Iran e, infatti, lo scorso maggio le Nazioni Unite l’avevano scelta come uno dei tre vincitori del Premio mondiale per la libertà di stampa. Ha dedicato la sua vita alla lotta contro la repressione, con particolare attenzione ai diritti delle donne e contro la pena di morte.
Ha pagato le sue battaglie con la perdita della libertà, le torture e la separazione dal marito e dai suoi due figli – i gemelli Kiani e Ali, diciassette anni – che vivono in esilio in Francia e che lei non vede da otto anni. È stata arrestata 13 volte e condannata 5 volte a un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate. Da febbraio 2022 ha problemi cardiaci, ma le sono state negate le cure mediche.
Tra oltre trecento candidati, il comitato di Oslo ha deciso di premiare lei, un’attivista che ha trascorso gli ultimi vent’anni entrando e uscendo dal carcere.
Una donna che lotta per maggiori diritti vivendo in Iran e non tra le frange di una diaspora divisa, in parte finanziata dagli Stati Uniti e da altri Paesi ostili.
Una diaspora aggressiva – e talvolta violenta – nei confronti di quei giornalisti – negli Stati Uniti ma anche in Italia – che non si appiattiscono sulla visione della loro narrativa militante e, al contrario, oltre alla cronaca delle proteste e della inaccettabile repressione di regime, offrono ai lettori anche un quadro più completo delle dinamiche sociali e del dibattito politico interni al Paese.
Perché l’informazione, se non cerca la completezza, non sarà mai indipendente.