Dal welfare al warfare passando dalla war transition economy

 di pier virgilio dastoli

 C’è molto, e forse eccessivo, entusiasmo nella ormai variegata rete degli europeisti che ha esondato dalla “maggioranza Ursula” imbarcando una parte dei conservatori e riformisti e financo di federalisti sulla proposta di Ursula von der Leyen di “riarmare l’Europa” (Rearm Europe).

O meglio: di riarmare gli eserciti nazionali dei volenterosi nell’Unione europea per rafforzare il sostegno all’Ucraina e, soprattutto, prepararsi a contrastare le eventuali mire imperialiste di Mosca che, conquistate le regioni russofone ma non russofile dell’Ucraina con l’accordo di Donald Trump, potrebbe teoricamente indirizzare le sue truppe verso i Paesi Baltici e fors’anche verso altri Paesi che facevano parte fino al 1990 dell’impero sovietico.

Riarmarsi presuppone la convinzione che, in tutti questi anni dalla caduta del Patto di Varsavia in poi, i Paesi dell’Unione europea che fanno parte della NATO si siano disarmati e che quindi sia venuto il momento di prepararsi a reagire alle per ora ipotetiche minacce espansioniste di Mosca aumentando le nostre spese in risorse umane, mezzi e investimenti industriali.

Secondo i calcoli più recenti dell’IISS di Londra parzialmente corretti dall’0CPI di Milano nel 2024 i Paesi membri dell’Unione europea e i Paesi europei nella NATO avrebbero invece investito nella loro difesa cifre superiori a quelle della Russia che ha pur dovuto compensare le perdite in armi e vite umane derivanti dall’aggressione all’Ucraina.

Queste cifre, che hanno rappresentato “solo” l’1.95% del PIL europeo, partono dal fatto che le risorse umane europee si sarebbero ridotte a meno della metà di venti anni fa così come nell’artiglieria, nei sistemi d’arma, negli aerei da combattimento, nei carri armati e nei cacciatorpediniere secondo un recente rapporto di Bruegel che giustifica così l’ipotesi del riarmo.

I Paesi extra-europei ed in particolare africani sanno bene che debbono contare sull’export europeo, che è aumentato in Francia del 59%, in Germania del 41% e in Italia del 43%, con una politica che tende a perpetuare vecchi rapporti colonialisti e che approfitta del fatto che nell’Unione europea non è mai stato introdotto un sistema di controllo della vendita degli armamenti gelosamente gestita a livello nazionale con intrecci non trasparenti fra Ministeri della difesa e industrie private delle armi.

Il piano per il riarmo europeo (Rearm Plan), annunciato da Ursula von der Leyen, si dovrà ora tradurre in atti normativi di non facile concezione per superare gli ostacoli che potremmo chiamare “costituzionali”, se esistesse una costituzione dell’Unione europea, per passare da un’economia di mercato (market economy) ad una economia di guerra (war economy) e sostituire al benessere europeo (European welfare) un modello conflittuale (European warfare).

Di quel piano lo strumento più agevole sarà probabilmente quello dei prestiti per un ammontare complessivo di 150 miliardi di euro in quattro anni, secondo il modello SURE introdotto per far fronte all’aumento della disoccupazione causato dal COVID, passando così dal welfare al warfare non sapendo in partenza quali Paesi ne beneficeranno in base alla loro sostenibilità finanziaria e che i prestiti dovranno essere rimborsati dagli Stati beneficiari.

La somma più consistente di 650 miliardi di euro dovrebbe provenire invece da investimenti pubblici nazionali che saranno consentiti usando la clausola di emergenza nel Patto di Stabilità e che privilegerà dunque anche in questo caso i Paesi con maggiore sostenibilità finanziaria lasciando ai singoli Governi la decisione se dirottare sulla difesa risorse inutilizzate dei fondi strutturali (regionali, sociali, agricoli).

La Commissione europea ha inizialmente evitato di porre questioni fortemente divisive fra i governi come l’idea di un bilancio e un debito comune, degli eurobond o di un rafforzamento degli strumenti esistenti dedicati soprattutto all’industria della difesa come il programma EDIP per cui sono attualmente previsti solo un miliardo e mezzo di euro e il cui regolamento è in codecisione fra Consiglio dell’Unione e Parlamento europeo.

Né Ursula von der Leyen né l’Alta Rappresentante Kaja Kallas hanno posto i problemi della interoperabilità fra gli eserciti nazionali, della catena di comando, della priorità agli investimenti europei in Europa (buy European) specialmente nei settori in cui l’Unione europea deve garantire una sua autonomia strategica,  di una stretta cooperazione e integrazione fra i servizi di intelligence e cioè problemi che erano stati sollevati nel rapporto Draghi e che avrebbero potuto essere messi da Kaja Kallas nell’agenda di una riunione dei Ministri della difesa eventualmente insieme ai Ministri degli esteri in formazioni del Consiglio da lei presiedute.

Nessuno ha proposto di aggiungere al tema strettamente militare della difesa europea questioni che fanno parte dei valori dell’Unione europea come la difesa civile e l’educazione alla pace, i corpi volontari europei e il ruolo dell’Unione europea nella costruzione, nel mantenimento e nell’imposizione della pace nel quadro dello Statuto delle Nazioni Unite perché appare invece come prioritario l’obiettivo della deterrenza che non esclude anche quella nucleare.

Nessuno ha poi sollevato la questione del sostanziale fallimento della prima cooperazione strutturata permanente (PESCO) con ventisei Paesi che si sono distribuiti quasi ottanta microprogetti ed un impatto sostanzialmente ininfluente sul futuro di una difesa comune.

Nessuno nelle istituzioni ha sollevato l’idea di dare una transitoria sostanza istituzionale all’azione comune dei “volenterosi” adottando il metodo Schengen per creare un quadro intergovernativo al di fuori dei trattati ma con l’impegno e la prospettiva di integrare l’accordo nella riforma dell’Unione europea e di far entrare questo gruppo di Paesi in quanto tale nel Patto Atlantico se dovrà essere esclusa l’idea più ambiziosa di una adesione a questo Patto dell’Unione europea nel suo insieme escludendo con un opting out i Paesi che non fanno parte della NATO.

Abbiamo sottolineato all’inizio del nostro editoriale l’eccessivo entusiasmo di vecchi e nuovi europeisti, a cui si sono inopinatamente associati anche dei federalisti, all’annuncio del Piano di Riarmo europeo fondato sull’aumento delle spese nazionali con una formula ormai entrata nei commenti generalizzati: “si tratta di un primo passo necessario ed urgente sulla via della difesa comune” ma un passo del genere potrebbe compiersi nella direzione opposta alla via della difesa comune.

Nessuno ha ricordato che la difesa è uno degli strumenti ma non il solo della politica estera e di sicurezza, che i rapporti fra difesa comune e potere politico sono al centro del dibattito europeo dai tempi della CED e che sarebbe stato urgente e necessario che il Consiglio europeo identificasse preliminarmente e sulla base dell’art. 26 TUE gli interessi strategici dell’Unione europea, ne fissasse gli obiettivi definendo gli orientamenti generali e adottando le decisioni necessarie.

Nessuno ha chiesto al Parlamento europeo le ragioni per cui l’Assemblea non abbia organizzato un dibattito semestrale sui progressi relativi alla PESC e alla difesa previsto dall’art. 36 TUE promuovendo la partecipazione in seduta plenaria di rappresentanti dei parlamenti nazionali e “agora” di dialogo con la società civile e i portatori di interesse.

Nella risoluzione dei gruppi PPE-S&D e Renew sul “Libro Bianco sul futuro della difesa europea” si solleva invece e a giusto titolo la questione del controllo democratico che sarebbe totalmente escluso se venisse adottata la base giuridica dell’art. 122 TFUE proposta dalla Commissione europea.

Tale controllo sarebbe invece garantito se venissero usate le basi giuridiche che la Commissione europea propose nel 2022 per il regolamento EDIP sul programma dell’Industria europea di difesa fondato sugli articoli 114.1, 173.3, 212.2 e 322.1 TFUE e che prevedono la procedura legislativa ordinaria e il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio.

Nel caso in cui il Consiglio europeo e poi il Consiglio decidessero di applicare la base giuridica dell’articolo 122 TFUE che esclude il controllo democratico, il Parlamento europeo avrebbe la possibilità di rivolgersi alla Corte di Giustizia sulla base dell’articolo 263 TFUE per controllare la legalità degli atti legislativi adottati dal Consiglio ma anche dal Consiglio europeo lasciando aperta la via di esigere successivamente una revisione dei trattati secondo un metodo democratico costituente.

Roma, 11 marzo 2025

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.