Le colpe dell’architettura

di marco cianca

Urla. Gemiti. Colpi sulle bare, macabri tamburi per evocare i defunti e ammonire i vivi. Dolore e rabbia si fondono sempre quando le istituzioni, in tutte le sfaccettature, vengono ritenute responsabili di tragedie annunciate. Accade durante ogni funerale, è avvenuto a Scampia per le vittime delle Vele. Tre morti e 14 feriti, tra cui 7 bambini, a causa del cedimento di un ballatoio, lo scorso 22 luglio. Degrado, omissioni, errori, ritardi, mancati restauri, menefreghismo. La procura ipotizza il reato di omicidio colposo. Ma l’Avvenire va oltre le polemiche contingenti. Scrive Elena Granata, in un editoriale del quotidiano cattolico: “Il peccato è originale, e sta tutto in quella convinzione paternalista che pensava di intervenire sul bisogno di casa e sulle povertà, concentrando i propri sforzi intorno alla quantità e non alla qualità delle risposte. È quell’utopia urbanistica che ha realizzato, per conto dello Stato, tra gli altri, lo Zen a Palermo, il Satellite a Pioltello, il Pilastro a Bologna, per citare solo alcuni esempi. Utopia che viene ancora celebrata come un tempo glorioso in cui la meglio gioventù di architetti intellettuali era affascinata da quel monumento intoccabile all’architettura socialista che è l’Unités d’habitation di Le Corbusier”.

Continua, implacabile, la docente di urbanistica: “Un’idea folle e radicalmente sbagliata aveva convinto molti seguaci del grande architetto che si potessero riprodurre artificialmente brani di città dal nulla, generando monocolture abitative, pensate come macchine per l’abitare, autosufficienti e isolate dal mondo, grandi alveari sociali in cui assegnare alle famiglie spazi angusti, tutti uguali, grandi il minimo per la sopravvivenza. Tanto poi per la vita collettiva ci sarebbero stati gli spazi comuni, i ballatoi, gli androni. A Scampia in particolare nasce con l’illusione che quei ballatoi richiamassero l’intrigo e la vita densa dei vicoli di Napoli. Un’architettura della che pensava di poter predeterminare i comportamenti delle persone, inspirando buone relazioni di vicinato attraverso una densità abitativa sciagurata. Come se la prossimità e la densità fossero di per sé foriere di legami sociali”.

Povero Le Corbù! Charles Edouard Jeanneret Gris, questo il vero nome, nato in Svizzera, classe 1887, pareva destinato a fare l’orologiaio come il padre (madre pianista) ma ai quadranti e alle lancette, che pure gli valsero il culto della precisione, preferì ben presto, attratto dall’ arte pittorica, il pennello e la matita. Poi, grazie anche alle sollecitazioni di un insegnante, l’amore per l’architettura. Pressoché autodidatta, cominciò a girare in altre Paesi, tra cui Italia, dove subì un’indelebile fascinazione per la certosa di Ema, nel fiorentino. L’essenzialità dei dormitori e l’ampiezza degli spazi comuni divennero la bussola costante per la sua creatività.

Nel 1945 fissò una scala di grandezza, Le Modulor, centrata sulla sezione aurea del corpo umano, da usare per misurare non solo la grandezza degli ambienti ma anche le dimensioni dei letti, delle porte, dei ripiani. Un tutto organico. Queste proporzioni le applicò per la progettazione delle Unités d’habitation. Su 17 piani fa costruire una successione di 337 appartamenti duplex, come se fossero stati realizzati in serie e poi assemblati. Previsti servizi per gli inquilini (negozi, ristoranti, asili nido) e sul tetto una sorta di grande piazza-terrazza con piscina. Un caseggiato autonomo, indipendente, sorta di enclave.

I basamenti poggiano sui pilotis, altra sua creatura, in pratica tronchi di cono rovesciati. Gli edifici sorgono così sollevati dal terreno, lasciando libero un ampio spazio che può essere utilizzato per giardini o parcheggi. Sogni di conviviale comunità associati con la forza del cemento armato. “Utopia incarnata, efficientissima e meravigliosa”, fu il giudizio di Bruno Zevi. Non abbiamo gli strumenti per dire se avesse ragione lui allora o Elena Granata oggi.

L’architettura contemporanea si intreccia con la letteratura, la filosofia, la psicologia, la didattica, la linguistica, la musica, le arti figurative. La cultura dell’abitare diventa scelta educativa, politica, economica. Persino religiosa. Tutti i grandi maestri del razionalismo creativo hanno avuto questa tensione unitaria . Lo spazio e i suoi confini plasmano scelte esistenziali. A partire da Walter Gropius e dal Bauhaus , da Frank Lloid Wright, da Ludwig Mies van der Rohe, da Alvar Aalto. “L’uomo abita male”, sosteneva Le Corbusier, attribuendo a questa sofferenza *la ragione vera e profonda” dei rivolgimenti sociali.

Ma oggi non è tempo di ardite teorie architettoniche. Abbiamo gli occhi pieni di macerie. Le immagini dall’ Ucraina e da Gaza mostrano palazzi sventrati, aperti, osceni. È tempo di bombe, non di righelli, compassi e pantografi. La ricostruzione, quando e se ci sarà, appare più un immenso business che l’occasione per un ripensamento abitativo. I mercanti di armi lasceranno il posto ai venditori di mattoni. O forse saranno le stesse persone.

E poi, come si può progettare a dimensione d’uomo se non sappiamo qual’ è questa dimensione? 

Tratto da Il Diario del Lavoro

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