SEPARAZIONE FINALE: PERCHE’ DIRE NO AL REFERENDUM

di giuseppe corasaniti*

Dire NO a un referendum sulla giustizia non equivale certo a negare la necessità di riformarla.

Può invece significare esattamente il contrario: prendere sul serio la giustizia come istituzione costituzionale, come sistema equilibrato di verifiche di legittimità, sottraendola a scorciatoie decisionali che rischiano di comprometterne l’equilibrio senza nemmeno poi risolvere alcun aspetto delle dichiarate disfunzioni. Il dibattito pubblico sulla giustizia tende invece ciclicamente a polarizzarsi attorno a un’alternativa tanto rassicurante quanto ingannevole. Riformare o conservare, cambiare o difendere lo status quo. In questa rappresentazione semplificata, chi esprime perplessità su determinate riforme viene facilmente collocato dalla parte dell’inerzia, quando non addirittura della corporazione. È una narrazione fuorviante, soprattutto quando l’oggetto del contendere non è una legge ordinaria, ma l’assetto profondo di uno dei poteri dello Stato.

La giurisdizione non è un insieme di regole tecniche giustapposte, né un apparato amministrativo isolabile dal resto dell’ordinamento. È un sistema complesso, fondato su equilibri delicatissimi tra indipendenza, imparzialità, responsabilità, legalità e fiducia pubblica. Ogni intervento su uno di questi elementi produce inevitabilmente effetti sugli altri. Il problema del referendum, in questo contesto, non è tanto ciò che si afferma, quanto ciò che necessariamente si esclude, e cioè la visione d’insieme.

 Il quesito referendario che mette insieme la separazione delle carriere (cui la accorta propaganda per il  SI vorrebbe poi ricondurre tutto) mentre invece enuclea una soggezione  vera e propria della magistratura ordinaria, che diviene così isolata e separata dalle magistrature amministrative e contabili (una volta si rifletteva sulla unicità delle giurisdizioni ) e con un Pubblico Ministero per di più che paradossalmente diverrà molto più autoreferenziale nell’esercizio dell’azione penale – come se tutti i problemi fossero qui- e sempre meno imparziale nei suoi essenziali compiti di indagine. Funzionerà come in molti Stati americani dove si scelgono le cose più semplici e si tralasciano quelle più difficoltose.

Ma un pubblico ministero separato si concentrerà ancora di più in senso mediatico e perderà quei caratteri di imparzialità sui quali l’impostazione costituzionale originaria insisteva a fronte di una magistratura che in epoca monarchica era largamente condizionata dal fatto che le stesse sentenze erano pronunciate “In nome del Re “.

Intervenire così su una singola struttura senza una progettazione complessiva – che riguardi il “giusto” processo che ben si esprime in tutte le magistrature a cominciare dai processi civili ed amministrativi e contabili equivale solo ad immaginare modificare una trave portante senza valutare l’equilibrio della intera costruzione, con risultati prevedibili a discapito della sua abitabilità e della stessa solidità.

E ciò punta allora a semplificare questioni che invece richiederebbero una più meditata elaborazione tecnica col risultato inevitabile di frammentare e radicalizzare le scelte, ratificando riforme che invece avrebbero dovuto essere molto più organiche spostando ogni decisione nello spazio parlamentare della responsabilità politica meditata e mediata. Ma siamo arrivati invece alla decisione finale e binaria, priva di possibilità correttive. L’unico scopo che sembra fin troppo evidente è quello di dare finalmente una lezione alla magistratura invadente, politicizzata, persino impegnata in traffici e operazioni clientelari pur di mantenere il potere.

È una immagine drastica e improvvisata che tutti i magistrati italiani non meritano ma non meritano forse neppure gli avvocati, senza l’iniziativa dei quali, spesso davanti ad un pubblico ministero imparziale ed a un giudice altrettanto indipendente ed autonomo (cioè, non soggetto ad altri vincoli se non quelli previsti dalle leggi) ogni tipo di speranza di giustizia sarebbe vana.  Certo di sbagli la magistratura ne ha commessi e tanti, ma almeno ha cercato di porvi rimedio, e soprattutto non merita certo la condizione di un potere dello Stato deviato, incapace anche di governarsi autonomamente e credibilmente perché troppo impegnata poi in sotterranei giochi politici e nel sottogoverno anziché nell’autogoverno responsabile.

Un ulteriore rischio è di tipo culturale. Il dibattito referendario alimenta spesso e sempre di più l’idea che esista una leva normativa decisiva capace di per sé di risolvere problemi strutturali: lentezza dei processi, inefficienze organizzative, disomogeneità interpretative, crisi di fiducia, persino vera e propria delegittimazione completa della magistratura ordinaria, descritta in senso caricaturale e perciò capace di ogni forma di accordi e cordate clientelari.

Ma questi problemi hanno radici profonde, che richiedono interventi molto differenti e soprattutto comuni. Da troppi anni – e con governi di ogni colore- si sottolinea da tempo l’importanza della deontologia comune dei magistrati e degli avvocati, della formazione comune delle professioni legali, della gestione più efficace delle risorse informatiche per i processi, della cultura istituzionale innovativa, dello stesso rapporto tra diritto, politica e società. E sono interventi che richiedono una azione urgente e diversificata.

 Ma neppure l’ombra dei problemi reali della giustizia viene ad essere toccata da un intervento così drastico: tutto si risolve nella separazione, nell’agognato taglio netto, nella proposizione del sorteggio per i Consigli superiori “separati”  dei magistrati italiani, salvo a recuperare poi  l’unità della giurisdizione, guarda caso, nella materia disciplinare con l’istituzione di una Alta Corte anche essa ovviamente prevalentemente sorteggiata i cui verdetti saranno in sostanza privi pure di un sindacato di legittimità.

Il problema è allora apparentemente risolto: i due Consiglio si occuperanno di nomine e di progressione di carriera e l’Alta Corte farà giustizia disciplinare meglio di come oggi fa un CSM che appunto viene presentato come integralmente “lottizzato” dagli stessi magistrati. Come poi se l’uno e l’altro nucleo tematico potessero poi essere distinti, come se la progressione della carriera requirente o giudicante potesse essere sempre ed in ogni caso nettamente distinta da un apprezzamento di comportamenti rilevanti o persino inopportuni sul piano disciplinare e comunque indicativi sul piano della professionalità e dell’impegno di servizio. Con organismi distinti il rischio di contenzioso e di valutazioni contrapposte è evidente. Ma nessuno ne parla.   

 Non è il sorteggio, istituto antico che può servire solo se si ha un meccanismo di riduzione della platea degli eligendi, anzi degli “estratti”, che non come modulo generale di governo affidato solo al caso. Basti ricordare che pure una giuria antica sorteggiata “equamente” fu quella poi che condannò Socrate. E forse fu proprio questa esigenza di definire regole comuni e valide per tutti che indusse il suo allievo Platone proprio ad immaginare uno Stato diverso, una Repubblica ideale, fondata su regole comuni delle scelte comuni, sicuramente migliore del caso inteso come unico possibile criterio dirimente di affidamento del potere pubblico (e infatti sapientemente non si ricorda che quel periodo di storia antica affidava al sorteggio tutte le cariche pubbliche, e non solo quelle giudiziarie).  

Oggi rischiamo – e lo si è detto molto bene – di trovarci inserita nella Costituzione una sorta di lotteria istituzionale, peraltro da attuare con criteri assai incerti, stante la evidente diversità numerica tra le platee dei soggetti potenzialmente sorteggiabili per la composizione degli organismi consiliari e di disciplina così definiti. Ed i criteri poi, restano sullo sfondo dell’attuazione, ma mai come in questo caso avrebbero dovuto essere invece chiaramente ben definiti dalla norma costituzionale.

È uno svuotamento che insieme – in nome della anelata “separazione” delle carriere   –che  rischia davvero di ridurre la giustizia italiana ad apparato ingovernabile e dà l’idea -che peraltro sarebbe poi unica in tutto il mondo,  che resti solo questa soluzione ormai per dare “effettiva” autonomia e indipendenza alla magistratura ordinaria, penale e civile quella che sui occupa di reati e di diritti in una azione che dovrebbe essere attenta al principio di eguaglianza posto espressamente dall’art. 3 della Costituzione.

In pratica la si divide da una unicità lungamente meditata in sede di Assemblea costituente per assoggettarla “insieme” e la si separa nei controlli interni per sperare, alla lunga, di ridurne l’azione indipendente a favore degli altri poteri pubblici non proprio in linea con la visione di Montesquieu.

 L’idea di una funzione giurisdizionale autonoma, di un servizio svolto con attenzione ma soprattutto “sine spe ac metu” senza paura e senza speranza la ripeteva bene Cicerone nel suo “De reditu” opera peraltro scritta dopo un lungo periodo di esilio. Ma di lui non si ricorda più nessuno, e si dimentica che proprio il suo ruolo di accusatore, svolto senza tener conto delle pressioni politiche di allora gli costò prima l’esilio e poi la vita come qualche tempo prima, del resto, era toccato a Demostene. Il che vuol dire che non servono alla giustizia magistrati speranzosi e quindi molto sensibili alle lusinghe del potere pubblico o privato e soprattutto timorosi, paralizzati in ogni possibile decisione dal timore concreto delle conseguenze che ne potrebbero derivare in termini di carriera e di responsabilità disciplinare. Ci sono e cono stati tanti esempi positivi e altrettante buone prassi operative e basare una possibile riforma solo sugli esempi negativi non aiuterà certo a comprendere come migliorare davvero l’assetto e il funzionamento della giustizia ordinaria, nel migliore dei casi rinvierà solo il problema. 

Perciò dire NO al referendum sulla giustizia può allora assumere un significato positivo e costruttivo. Significa affermare che, le riforme costituzionali devono essere pensate come sistemi, non come slogan, che il Parlamento – indipendentemente dagli schieramenti- deve assumersi fino in fondo la piena e condivisa responsabilità politica e tecnica delle scelte e che la giustizia non può essere riformata contro sé stessa, né senza una riflessione attenta e sensibile sul suo ruolo costituzionale.

* Professore ordinario di filosofia del diritto

 

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