di piero ignazi
Il conflitto istituzionale che si è aperto è figlio del via libera all’accordo tra 5Stelle e Lega, un accordo in buona misura favorito dal rifiuto del Pd di andare a vedere le carte dei pentastellati. La crisi di queste ore deriva da una pulsione anti-establishment dei due partiti che si è spinta fino al progetto di dare vita ad una “terza repubblica”, arrivando a forzare le regole attraverso la diminutio del ruolo del presidente della Repubblica, chiamato a ratificare come un semplice notaio scelte incompatibili con la difesa degli interessi della nazione quali la nostra appartenenza all’Unione Europea e ai suoi principi. Si poteva evitare tutto ciò? Probabilmente sì, se altri attori politici avessero giocato un ruolo politico e non si fossero ritirati sull’Aventino. Alludiamo, evidentemente, alla scelta del Pd, o meglio, del suo “segretario dimissionario”, ma saldamente al comando, come si è visto nelle ultime riunioni collegiali del partito.
Il Partito democratico, inevitabilmente scosso dall’esito disastroso delle elezioni, ha avuto nei primi giorni del post 4 marzo una reazione di chiusura a riccio. Il Pd ha ripetuto come un mantra salvifico che sarebbe andato all’opposizione, comunque, senza se e senza ma. Ancora prima che ci fosse alle viste un qualche possibile governo. Anzi, lo ha dichiarato festoso e garrulo: ci divertiremo a guardare cosa combineranno i vincitori, e prepariamo i pop corn come a godersi un bello spettacolo. In sintonia con questo approccio, quando il M5S, ansioso di andare comunque al governo, si è rivolto al Pd per verificare una possibile convergenza, il segretario-dimissionario non ha esitato a chiudere subito la porta in faccia all’ipotesi che altri nel partito stavano tenendo in considerazione. Sia chiaro, un’alleanza di governo con i 5Stelle era improponibile per ragioni sia programmatiche che politiche. Sul primo versante c’erano distanze abissali su molti punti nonostante la buona volontà del comitato dei saggi reclutati dai pentastellati per trovare coincidenze e un’accorata lettera aperta di Di Maio al Pd; sul piano politico il Pd, ridotto a quasi la metà dei 5Stelle e reduce da una legislatura in cui aveva in buona parte dominato il governo (salvo il periodo dell’esecutivo guidato da Enrico Letta), non poteva accucciarsi ai piedi dei vincitori e fare da junior partner: un ruolo inaccettabile.
Ma questo non significa che andassero buttate al macero anche intelligenza politica e responsabilità istituzionale. Infatti se il Pd avesse avviato una trattativa con il M5S avrebbe da un lato dimostrato che le avances grilline non erano ricevibili, e dall’altro lo avrebbe vincolato ad una trattativa a sinistra che avrebbe poi inibito un loro ritorno a destra. Il Pd avrebbe potuto esercitare una influenza benefica sul M5S direttamente e sul sistema più in generale se avesse dedicato una settimana del suo tempo a discutere con gli avversari politici. Il Partito democratico ha invece preferito non incominciare nemmeno a parlare, ri-buttando così Di Maio nelle braccia di Salvini. E adesso per il Pd tutto è ancora più complicato perché la sua estraneità rischia di diventare irrilevanza. A meno che non abbia il coraggio di promuovere e di prendere la testa del nuovo asse di conflitto che si prefigura tra filo-europeisti e anti-europeisti. Una scelta naturale per il Pd e che ora dovrebbe essere prioritaria: per una Europa federale e solidale contro i nazionalismi, i populismi e gli egoismi nazionali da qualunque parte essi provengano (cioè anche dalla Germania dell’austerità merkeliana e del suo inaccettabile surplus commerciale). Ma l’attuale leadership del Partito democratico è all’altezza della sfida?
[da “Repubblica , 28 maggio 2018]