di maurizio fumo
“La prescrizione estingue il reato”, così si legge nell’art. 157 del codice penale.
A mio modo di vedere è un’espressione impropria. Come può un fatto storico (il reato), un avvenimento collocato nel tempo e nello spazio, “estinguersi” (annullarsi, azzerarsi, diventare inesistente) solo perché è passato (altro) tempo? In realtà, se vogliamo mantenere la prescrizione sul terreno del diritto penale sostanziale, ciò che si estingue è la pretesa punitiva dello Stato. Se viceversa la volessimo trasportare nell’ambito del diritto processuale, dovremmo dire che la prescrizione estingue – appunto – il processo (o il procedimento). Non si tratta di una mera questione terminologica affidata alla puntigliosità di giuristi un po’ pedanti; la distinzione ha conseguenze pratiche non indifferenti. Se, infatti, come vuole la Corte costituzionale, che fa riferimento al secondo comma dell’art. 25 della nostra Carta fondamentale (ordinanza 24/2017), la prescrizione è un istituto di diritto sostanziale, le norme più sfavorevoli all’imputato introdotte dopo la commissione del reato non possono retroagire, vale a dire: essa (la disposizione più severa) si applica solo con riferimento ai reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge che la regola (o, nel nostro caso, la modifica). Se, viceversa, fosse (ma non è) un istituto di diritto processuale, sarebbe applicabile la normativa in vigore nel momento in cui si svolge il processo e, dunque, non avrebbe rilievo il momento in cui il reato è stato commesso (tempus delicti), ma il momento in cui chi è accusato di averlo commesso viene giudicato (tempus regit actum).
Sembra complicato, ma non è così.
Continua la lettura di QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DELLA PRESCRIZIONE