La sinistra masochista, Psoe e Podemos cancellano storia e filosofia

di antonio cecere

Il nuovo progetto di riforma prevede che le tradizionali materie vengano sostituite da discipline più pratiche. Ma quando la scuola inizia a creare lavoratori competenti invece che cittadini sapienti abdica al suo ruolo di paideia moderna e inizia a ricreare le condizioni pre-moderne di luogo per la formazione di sudditi.

Il Consiglio dei Ministri spagnolo ha approvato, il 29 marzo, un progetto di riforma degli studi dell’obbligo che stabilisce tutto ciò che gli studenti, tra i 12 e i 16 anni, devono imparare nelle scuole superiori di tutta la Spagna. Per la prima volta, nella legislazione educativa, il Ministero dell’Educazione abolisce la filosofia e lo studio cronologico della storia.

Secondo il ministero la riforma punta a un’istruzione “meno meccanica” e più orientata verso i “Valori Civici ed Etici” impostati dal ministero e fondati sulla “nuova Educazione alla Cittadinanza di José Luis Rodríguez Zapatero”. In poche parole, lo studio della filosofia, e della storia, sarà rimpiazzato da nuove materie come “memoria democratica”, “ecofemminismo”, “etica della cura”, “diritti LGBTQI+”. Anche le altre materie saranno trattate abbandonando la tradizione pedagogica occidentale – che si orienta al pensiero critico attraverso uno approccio razionale allo studio – per sostituire alle “conoscenze” “gli atteggiamenti e le emozioni”. Lo studio della storia cambia: il “molto accademico” approccio cronologico viene sostituito da un approccio per blocchi tematici, senza concentrarsi sulla concatenazione tra gli eventi.

Il testo di legge propone un approccio basato sulle competenze, che predilige l’apprendimento applicato, in quanto, secondo la visione di questi nuovi «progressisti», la riforma porterebbe la scuola più vicino alla reale vita quotidiana dei giovani.

Per completare la contestualizzazione della scuola nel frastuono dell’epoca in cui stiamo vivendo, i sinistri pedagoghi spagnoli decretano l’espulsione della Filosofia dall’insegnamento sostituendo la vetusta e odiata (dalle classi dirigenti) materia plurimillenaria con materie più pratiche, come il lavoro su specifiche tematiche di attualità, i problemi di convivenza in una comunità pluralista, la formazione e l’orientamento personale e professionale, la digitalizzazione, l’economia e l’imprenditorialità.

Appena nel 2017 la filosofa neo-illuminista spagnola Marina Garcés denunciava che la «deistituzionalizzazione delle attività umanistiche» è un preciso progetto cognitivo del capitalismo contemporaneo. Questo progetto non è pensato dagli Stati o le comunità scientifiche, ma è determinato dall’interesse delle banche e dalle grandi imprese che hanno un piano formativo e culturale teso alla soddisfazione del proprio fabbisogno di sempre nuove maestranze tecniche iper-specializzate.

Inoltre, aggiungo io, questa forza lavoro, più è specializzata e più si precarizza, diventando dipendente dal dominio del sistema finanziario che pone il lavoratore e l’intellettuale, in un percorso di perenne aggiornamento del proprio ruolo subalterno. Il mercato segmenta ed esige super specialisti al fine di non rischiare di trovarsi soggetti autonomi in grado di cogliere l’insieme della complessità del sistema-mondo.

La filosofa spagnola parla della «standardizzazione della produzione cognitiva» nelle accademie dove è vincente il modello del docente burocrate che fornisce pacchetti di sapere-consumo per discenti che collezionano punti-laurea; una sorta di fabbrica di diplomi ad uso del mercato del lavoro.

La Garcés denuncia lo spirito anti-illuminista della nostra epoca, quasi preconizzasse la deriva del Governo spagnolo di questi giorni, quando spiega che «la guerra anti illuminista sta legittimando un regime sociale, culturale e politico basato sulla credulità volontaria. Kant […] parlava di uno stato di minorità di cui l’uomo è colpevole. Oggi […] abbiamo una società senile, che cinicamente è disposta a credere soltanto a ciò che risulta più utile, momento per momento[1]». Nell’epoca moderna, grazie al pensiero enciclopedico, e all’atteggiamento critico[2] che ne è scaturito, è stata realizzata l’idea di un rischiaramento del genere umano, il quale si è emancipato dalla dipendenza del sapere delle élite tipica di chi non è in grado di pensare con la propria testa. Questa dimensione teorica, questo richiamo oraziano al «Sapere aude», aveva trovato una realizzazione pratica con la scolarizzazione di massa grazie alla scuola pubblica e all’istruzione obbligatoria, pensata come strumento di autonomia dei cittadini a cui venivano fornite le conoscenze di base nelle materie che erano in grado di aprire la mente al lessico critico.

A mio avviso la posizione della Garcés è condivisibile ma non è in grado di spiegare fino in fondo il successo del modello della scuola delle competenze. Per capire fino in fondo la gravità della destrutturazione del modello di istruzione moderna, dobbiamo avere il coraggio di dichiarare che ciò che è veramente cambiato è il nostro modo di pensare noi stessi quali agenti autonomi nella società capitalista.

L’affermazione del capitalismo finanziario di questi ultimi decenni ha generato una mutazione antropologica che si basa su una mentalità economicista che ha plasmato un nuovo lessico nelle Democrazie occidentali.

La realtà che viviamo oggi è quella di una società economicista globale che ha sostituito, al mito illuminista del progresso, lo schema aziendale dello sviluppo, determinando uno slittamento pericoloso intorno all’idea stessa di formazione intellettuale, e di conseguenza dell’istruzione scolastica.

Questo aspetto teorico è connesso al fraintendimento che le Democrazie occidentali hanno perpetrato nel corso di questi anni nelle varie riforme scolastiche che sono state elaborate dai governi, e che oggi vediamo compiersi anche in Spagna. I politici contemporanei hanno, via via, reso i programmi d’insegnamento sempre più aderenti al mondo del lavoro, alle professioni, all’adattamento dello studente alle proprie inclinazioni di base. Questa visione della scuola è un ritorno indietro al tempo in cui l’istruzione era intesa come il ciclo di formazione di un servo di bottega e non, come lo intesero gli illuministi, la formazione di un cittadino autonomo e consapevole.

La trasformazione della scuola è stata concepita seguendo l’involuzione di una mentalità sempre più tesa ad inseguire il modello della comunità-fabbrica. La vita dell’uomo contemporaneo non segue l’ideale della costruzione della propria coscienza autonoma, anzi ciò che è ricercato da molti è l’adesione ai modelli vincenti, alla ricerca di un’estetica della performance, dell’uomo indaffarato e sempre impegnato a svolgere compiti sempre più gravosi.

Siamo talmente tutti coinvolti in questa messa in scena quotidiana che, ascoltando i dialoghi fra conoscenti, al telefono o presso luoghi occasionali di ristoro, non possiamo non notare che l’argomento più in voga è sempre il proprio lavoro e l’ostentazione della fatica che si prova nel svolgerlo. Una sorta di litania dello schiavo che contabilizza il proprio dolore per affermarsi come il più schiavo tra altri schiavi.

Non potrebbe essere in altro modo, visto che da decenni le famiglie hanno chiesto alla scuola di formare lavoratori e non uomini. L’importanza del voto, del diploma, della laurea che vale punti per vincere concorsi, ha generato una visione strumentale della formazione scolastica. La scuola serve per produrre i documenti per fare i concorsi per il lavoro che più rende in termini di guadagno e di prestigio sociale.

In questo modo, l’importanza di acquisire reali conoscenze è sempre più scivolata in secondo piano, fino a sparire con la creazione dell’alternanza scuola- lavoro, una sorta di dichiarazione di fallimento della scuola pubblica e una evidenza del fraintendimento del concetto di progresso, che nulla ha a che fare con lo sviluppo economico che dovrebbe essere solo una conseguenza della formazione dell’individuo.

Quando la scuola ha cominciato a creare lavoratori competenti invece che cittadini sapienti, ha abdicato al suo ruolo di paideia moderna, e ha cominciato a ricreare le condizioni pre-moderne di luogo per la formazione di sudditi incanalati nel loro destino di servitori di altri uomini. Se guardiamo con distacco alle nostre esistenze, sempre pressati in fila in qualche ufficio della burocrazia pubblica, sempre chiusi in auto in città congestionate dal traffico, spesso in attesa di qualche bus pubblico che non arriva nei tempi stabiliti, ci dovremmo chiedere quanto abbiamo studiato per arrivare a questa condizione di servitù. Molti si sono persino laureati e specializzati per essere più servi di altri. Ma di chi siamo servi?

A mio avviso, prima che delle banche e delle aziende della tecno-finanza, noi siamo servi della nostra stessa mentalità economicista, che ci fa desiderare essere competitivi per una vita sempre più intensamente sottomessa a beni di consumo, il cui possesso è il nostro premio per tutto l’impegno quotidiano. Anche il più ricco, non fa altro che servire un sistema che ci spinge a consumare il nostro tempo a rincorrere desideri che rispondono a esigenze che altri stabiliscono come importanti.

In definitiva, noi veniamo preparati per contribuire allo sviluppo della catena di montaggio del consumismo, e non siamo formati per essere il motore del progresso dell’umanità.

Ogni attività è vista in funzione della remunerazione che è pensata come una misura della capacità di spesa per l’accaparramento degli oggetti che vengono prodotti nella città-fabbrica. L’importante, dunque, è che si sviluppi questa città-fabbrica in cui viviamo, non ci interessa il progresso, né il nostro, né quello della specie.

Su questo punto noi non siamo moderni, non siamo illuministi, non siamo in grado di emanciparci dall’alienazione che il linguaggio capitalista ha imposto spegnendo ogni barlume di pensiero critico, ma in verità noi stessi siamo il capitalismo, quando chiediamo alla scuola certificati che ci consentono di lavorare per spendere, per pagarci le rate con cui accumuliamo oggetti e finti scampoli di felicità da esibire sui social network, così, in definitiva, siamo noi che alimentiamo questo lessico servile ormai sempre più pervasivo.

La riforma spagnola è dunque solo una presa d’atto, una notifica di un processo di cui noi stessi siamo gli artefici. Dobbiamo affermare con forza che non c’è nessuna idea di riforma nel procedere del governo spagnolo, ormai i politici di oggi, più che rappresentanti del popolo, sono gli esecutori del volere del capitale, rincorrono i desideri immediati dei loro elettori e non fanno altro che ratificare meccanicamente il decadere della società.

La questione ancora più grave, in tutta questa storia, è che a sancire questa deriva regressiva ci sia stato l’impegno dell’intera sinistra spagnola del Partito socialista operaio di Spagna (PSOE) e di Unidos Podemos. I due partiti hanno, di fatto, portato a termine un disegno iniziato, nella legislatura precedente, dal ministro conservatore José Igniacio Wert, un sociologo che aveva lavorato per anni come dirigente al Banco Bilbao Vizcaya Argentaria. Questo bancario prestato alla politica aveva aumentato le ore di educazione finanziaria sottraendole alla filosofia, sostenendo la necessità per i giovani spagnoli, «i consumatori del futuro», come aveva definito gli studenti in un’intervista, di diventare più consapevoli nello spendere le proprie risorse.

Il fallimento della sinistra europea si misura proprio qui, nella sua subalternità alle politiche delle destre: quando non si impegna nell’aumentare la spesa per l’istruzione, lasciando inalterati i tagli dei governi precedenti, e quando rincorre le scellerate politiche di delegittimazione del sapere umanistico, necessario alla formazione del cittadino moderno, a favore delle competenze utili al consumatore del terzo millennio.

[1] Marina Garcés, Il nuovo illuminismo radicale, Nutrimenti editore, Roma 2019.

[2] Cfr. Michel Foucault in Illuminismo e critica, a cura di Paolo Napoli, Donzelli Editore, Roma 1997.

[da micromega.net]

 

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