di enzo marzo
BREVE PREMESSA. Dopo la pubblicazione del saggio di Raffaele Fiengo nello scorso numero del “Nonmollare” sul rapporto tra denaro, democrazia e informazione, intendevo dare il mio contributo di carattere pessimistico muovendo delle obiezioni critiche alla sua proposta di mettere nelle mani dei giornalisti la soluzione della criticità del rapporto pubblicità redazionale pagata e occulta e informazione trasparente e corretta. Tra denaro e democrazia. Il mio scetticismo nasce dal dubbio che i giornalisti possano raddrizzare un legno che nasce storto, ma soprattutto dalla conoscenza del mondo giornalistico così come è mutato negli ultimi decenni. I giovani professionisti conoscono poco i loro diritti e i loro doveri, e quando ne hanno contezza non hanno la forza di farli valere tanto è debole il rapporto giornalista-editore, inquinato com’è da una minacciosa precarietà che rende tutti ricattabili. Persino i Direttori, che man mano hanno perduto autorevolezza, sono senza difesa. Negli ultimissimi anni quanti di loro sono stati «come d’autunno sugli alberi le foglie»? Figuriamoci, un apprendista, precario e senza tutele sindacali. Già, perché contemporaneamente anche le organizzazioni sindacali sono ridotte a un nulla, se non addirittura a complici. Così i giornalisti, che la leggenda dipingeva devoti sacerdoti del “Watchdog journalism”, hanno smesso d’essere i cani da guardia della Democrazia e della Notizia e si sono trasformati (certo, non proprio tutti ma i più) in cani da compagnia dediti a leccare le mani e i piedi dei padroni e del potere di turno. E i lettori se ne sono progressivamente accorti, e stanno fuggendo, componenti di un circolo vizioso: diminuiscono l’autorevolezza e la credibilità della comunicazione, quindi si riducono i lettori e le vendite, quindi aumenta il potere e il ricatto dell’editore che ha sempre più bisogno di sopperire alla carenza di vendite con la pubblicità e con la soggezione a tutti i poteri. [1]. Ma è per un destino dannato e irreversibile che i giornali sono ridotti a veicoli di pubblicità commerciale occulta e senza propria autorevolezza informativa? Credo di no.
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In Italia la situazione è degenerata definitivamente con l’èra Berlusconi. Venti anni di monopolio televisivo di Raiset, l’autoritaria riforma Renzi che anche formalmente ha messo nelle mani del Governo ogni potere televisivo, una sinistra che per mediocrità culturale ha confuso il pluralismo con la lottizzazione, l’opportunismo cinquestellato che si è fatto complice persino della nomina di un presidente Rai che peggiore non poteva essere, e infine una gestione sindacale assolutamente connivente ci hanno condotti all’autolegittimazione della piena occupazione della comunicazione televisiva da parte dell’estrema destra. Che poi ci sia il crollo del numero dei telespettatori interessa poco ai nostri governanti. Anche se sbraitano contro la egemonia culturale della sinistra, in cuor loro non possono non essere consapevoli della propria pochezza. E allora rimediano in maniera grossolana.
La modalità adottata da Meloni è antidemocratica, arrogante e menzognera. Molto efficace. Si fonda sul monopolio informativo senza possibilità di smentite o chiarimenti dotati di un’equivalente diffusione. Così la Presidente inonda la tv con un ritmo quasi quotidiano di mini video o di false interviste, in cui lei pontifica, sparge bugie, passa dalla finta arrabbiatura alle mossette da Bagaglino. Fa il suo spettacolino. E il messaggio si chiude lì. Questo modus totalitario è stato digerito come inevitabile anche dall’opposizione. Al massimo ci si piange addosso. Questi video, pure nei loro contenuti, sono lo scandalo maggiore. Con quella bocca menzognera il pinocchietto proteiforme può dire ciò che vuole. Senza contraddittorio.
Ma andiamo nel dettaglio. Il video finora più indecente è sicuramente quello recente sul caso Almasri. È stato infarcito di bugie così sfacciate che hanno sbigottito chiunque avesse una minima conoscenza di fatti giuridici o politici, ma la massa dei cittadini comuni si sono bevuti la pozione inquinata senza battere ciglio.
Affidiamoci agli esperti, ovvero a “Pagella Politica”, che è specializzata da quattordici anni in Fact-Checking, ovvero nel controllo della veridicità delle notizie offerte dalle dichiarazioni della comunicazione politica. Dal 2017 è membro attivo dell’International Fact-Checking Network (IFCN), la principale rete internazionale dei progetti di fact-checking. Insomma è un’autorevole agenzia autonoma e indipendente. Leggiamo parti della sua analisi: «Nel video del 28 gennaio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato un video ripreso da tutti i media italiani e anche internazionali in cui ha annunciato di essere indagata dalla Procura di Roma “per i reati di favoreggiamento e peculato” per il rilascio del carceriere libico Njeem Osama Almasri Habish». «Nel video la presidente del Consiglio ha commesso una serie di errori sul caso del carceriere libico rilasciato in pochi giorni dall’Italia. In primo luogo, non è vero che quello che ha ricevuto è un avviso di garanzia. Non è poi vero che quanto fatto dai magistrati sia dipeso da una loro scelta: si tratta di un atto dovuto in seguito alla denuncia presentata dall’avvocato Luigi Li Gotti nei confronti proprio di Meloni, del ministro della Giustizia Carlo Nordio, di quello dell’Interno Matteo Piantedosi, e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Se non avessero inviato questa comunicazione i giudici avrebbero violato la legge. Tra le altre cose, è poi fuorviante la ricostruzione di Meloni della vicenda giudiziaria di Almasri in Italia, che sembra togliere ogni responsabilità a Nordio, scaricando sulla magistratura tutte le colpe». «In più, Meloni ha criticato l’avvocato che ha sporto denuncia contro di lei e gli altri ministri. Si tratta di Luigi Li Gotti, definito dalla presidente del Consiglio “ex politico di sinistra molto vicino a Romano Prodi conosciuto per avere difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi”».
«Li Gotti – continua “Pagella Politica” – è invece un avvocato con alcuni trascorsi in politica. Dal 2008 al 2013 è stato infatti senatore per l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e in quella legislatura ha ricoperto dal 2006 al 2008 il ruolo di sottosegretario alla Giustizia del secondo governo guidato da Romano Prodi. Prima ancora, però, Li Gotti è stato per anni un esponente del Movimento Sociale Italiano e poi di Alleanza Nazionale, da cui Fratelli d’Italia ha preso origine. Questa storica appartenenza alla destra italiana è stata rivendicata dallo stesso avvocato in un’intervista con la “Repubblica” il 28 gennaio, ma Meloni non ne ha fatto cenno sui social, parlando di Li Gotti solo come “ex politico di sinistra” e “molto vicino a Romano Prodi”. Nella sua carriera da avvocato Li Gotti ha difeso alcuni tra i principali pentiti di mafia, come Tommaso Buscetta, Giovanni Brusca e Gaspare Mutolo». Può un Presidente del consiglio non conoscere la differenza tra “mafioso” e “pentito di mafia”?
«A seguito della denuncia di Li Gotti, la procura della Repubblica di Roma ha inviato nei confronti di Meloni e dei suoi colleghi una comunicazione di iscrizione nel registro degli indagati, e non un avviso di garanzia come ha impropriamente detto la presidente del Consiglio». «Un avviso di garanzia è inviato a una persona, magari già indagata da tempo, nel momento in cui il pubblico ministero, cioè l’accusa, deve eseguire atti di indagine per cui la legge chiede la presenza di un avvocato difensore della persona indagata, come per esempio l’interrogatorio. La comunicazione di iscrizione nel registro degli indagati, invece, è un’informativa che viene mandata come atto dovuto ai soggetti interessati da una notizia di reato, come nel caso di Meloni e degli altri ministri».
Ci fermiamo qui, perché non vogliamo annoiare il lettore con l’elenco di tutte le bugie e le inesattezze rilevate da “Pagella Politica” anche sul resoconto di come si è svolta nei giorni precedenti tutta la vicenda Almasri. Gli appassionati possono documentarsi su https://pagellapolitica.it/articoli/errori-giorgia-meloni-almasri.
Qui è sufficiente sottolineare i guasti che può provocare l’uso senza controllo di uno strumento che rende possibile un diluvio di bufale a danno del cittadino.
Passiamo alle conferenze stampa. C’è chi ha fatto notare come le conferenze stampa di Meloni siano più rare di quelle di Putin. Conoscendo l’amore dell’autocrate russo per la stampa, possiamo dire che la Presidente italiana fa di tutto per uguagliarlo.
La più recente conferenza stampa, quella di inizio anno, è stata farsesca. Non ha prodotto una sola notizia. Giorgia ha soltanto accentuato con vere e proprie leccate il suo scontato “bacio della pantofola” di Trump. E si è resa ridicola in tutto “l’orbe terracqueo” paragonando il potere e le “interferenze” del nazimiliardario Musk con quelle di Soros. Nulla di più. Eppure quell’incontro è stato importante, ma soltanto perché ha dimostrato la condizione penosa del giornalismo italiano. Prima di tutto, è stato accettato un confronto assolutamente peculiare e anomalo (responsabilità gravissima di chi ha concordato una regola cosi innovativa a favore della Presidente come quella di non rendere possibile la replica del giornalista), e poi evidente è stata la scarsa professionalità dimostrata da quasi tutti, sia perché hanno affastellato più domande in una, in modo da dare la possibilità alla Presidente di scegliersi quella che più le facesse comodo, sia perché hanno accentrato tutta la attenzione su Trump. Così in quaranta sono riusciti a non mettere sul piatto gli argomenti più ovvi e conflittuali: l’attività di governo e il suo rapporto con la crisi del paese.
Per onestà occorre notare che comunque è stato compiuto un passo avanti rispetto a una conferenza stampa di Draghi in cui i giornalisti più volte applaudirono l’entrata in scena e le risposte del Presidente del consiglio. Senza alcuna vergogna e senza avere la consapevolezza di quale sia il ruolo del giornalista in una conferenza stampa.
Adesso permettete un breve abbandono di un vecchio giornalista alla nostalgia del tempo che fu. Durante l’infanzia mi appassionavo alle Tribune elettorali degli anni ’60, quando la “deprecabile” tv democristiana concedeva agli italiani lo spettacolo “decente” di conferenze stampa che ora neppure ci sogniamo. Il giornalista rivolgeva la domanda e, se l’interlocutore sviava, poteva ribattere incalzandolo e riportandolo all’argomento. Molti ancora ricorderanno il giornalista Romolo Mangione, vicedirettore di “Socialismo democratico”, organo del Psdi, quindi non un guerrigliero anarchico, che nei primi anni ’60 del secolo scorso diventò famoso per le sue domande tacitiane che lasciavano poco scampo a Togliatti o a Pajetta. Diventò il loro fumo negli occhi, e i telespettatori non si annoiavano. Erano momenti di democrazia effettiva. Di dialoghi alla pari. Ora i giornalisti chiedono alla Presidente se acciacca le formiche rosse. O se ha apprezzato l’elogio che la propria testata le ha recentemente elargito…
Come sovraprezzo aggiungo (chiedo scusa) un episodio che mi ha coinvolto personalmente. Alla fine di aprile del 1984 si svolse a Milano il 35° Congresso del partito repubblicano, e l’allora Segretario, Giovanni Spadolini nella replica finale parlò dello scandalo della lottizzazione partitica delle USL (Unità sanitarie locali) e nel fervore del discorso promise che se entro sei mesi i partiti non avessero messo fine a quella indecente appropriazione di potere, i rappresentati del Pri avrebbero lasciato in massa i c.d.a. delle Usl. Applausi scroscianti. Più di un anno dopo, tocca a Spadolini il turno di una Tribuna politica in Tv. Già i tempi sono cambiati un po’: le Tribune politiche hanno conservato il diritto di replica del giornalista, ma non si svolgono più “in diretta”. Il mio giornale mi spedisce a via Teulada. Accanto mi ritrovo un caro amico come Nello Ajello, di “Repubblica”. Il clima generale è cordiale. Quando arriva il mio momento, mi bastano pochissime parole, rileggo testualmente la dichiarazione congressuale e chiedo semplicemente i nomi dei dirigenti repubblicani che si sono dimessi, essendo trascorsi i sei mesi già da molto tempo. Avviene l’incredibile: Spadolini, invece di rispondere, alza le braccia e interrompe la trasmissione. È infuriato: «Enzo, questo non me lo dovevi far, ricordati che sono stato io ad assumerti al Corsera, sei sleale» ecc. Io, sbigottito, rispondo semplicemente: «Mi scusi, Segretario, ma ricorda male, in verità sono stato assunto dal Direttore Piero Ottone, non da lei». Gli altri giornalisti scoppiano a ridere, Ajello addirittura si sganascia di fronte ad una baruffa tra corrieristi… La regia non sa che fare… La sera stessa la trasmissione va in onda, non mi ricordo se con la mia domanda tagliata o con una risposta evasiva appiccicata successivamente. Poi, Spadolini indirettamente me la fece pagare molto cara…
Eroe? No, giornalista. I giornalisti veramente eroici sono quelli che operano in zone pericolose di guerra. Però c’è da domandarsi: oggi la categoria dei giornalisti conosce i suoi doveri professionali? È sacrosanto preoccuparsi dei pericoli che corre l’informazione in seguito alla rivoluzione tecnologica, tra fake news e manipolazione dei cervelli dei cittadini, ci dobbiamo difendere da inquinamenti che hanno trasformato la propaganda dei regimi novecenteschi in campagne di manipolazione di massa che già si sono dimostrate terrificanti e stanno già provocando danni forse irreversibili al sistema democratico. In confronto col presente e col futuro prossimo quella dei totalitarismi votati dal popolo sembra una preistoria in cui si usavano strumenti artigianali. Occorre studiare molto, inventare nuovi mezzi di difesa.
Capire e far capire che il “sistema democratico”, lasciato in balia di ogni possibile manipolazione, gode di un’immeritata reputazione e non è che strumento di prevaricazione se non è strettissimamente legato alle regole liberali. Anzi, allo spirito originario del liberalismo. Che non è altro che incarnazione della perenne spinta della società civile verso la libertà, che si realizza attraverso la limitazione del potere non nella semplice organizzazione del potere.
Nel frattempo i giornalisti (quelli che hanno ambizione di svolgere davvero il proprio lavoro e ancora non si sono asserviti) possono rimanere a guardare e farsi prendere per i fondelli da una qualunque cabarettista “eletta dal popolo sovrano”? Basta col piangersi addosso, e considerare inevitabile ciò che può essere evitato facendo il proprio lavoro con coscienza. E forse basta persino solo il minimo sindacale.
Solo due esempi, con proposta annessa.
Primo. La Presidente del consiglio non convoca quasi mai una conferenza stampa e quando l’indìce impone la sua regola di proibizione del contraddittorio? Rimedio semplice, i giornalisti la mandano deserta… La stessa preferisce farsi intervistare dal solito pseudo-giornalista-tappetino o, meglio, si fa girare il video giornaliero in cui possa apparecchiare agli italiani tutti menzogne addirittura plateali? Va bene, anzi va male, ma perché allora i giornalisti delle testate di carta stampata e online che ambiscono ad una effettiva informazione, magari con l’aiuto delle organizzazioni sindacali di categoria, non stabiliscono un appuntamento settimanale, sempre alla stessa ora, nella Sala stampa della Camera o altrove, per una conferenza stampa a cui invitare la Presidente del consiglio o l’uomo politico interessante in quel momento? Conferenza stampa che si svolge con le normali regole che vigono nei paesi civili. La Presidente non viene? La sedia rimarrà vuota e i giornalisti si succederanno ugualmente con le loro domande, saranno ripresi dalle televisioni libere e dai siti. Il giorno dopo i quesiti saranno pubblicati dai quotidiani, purtroppo senza risposte.
Secondo. Titolo: nel giornalismo non c’è un giudice a Berlino
Il 10 agosto del 2021, ovvero quasi quattro anni fa, la Fondazione Critica liberale e Senza bavaglio (Enzo Marzo e Massimo Alberizzi) presentarono un esposto a tutti gli organismi di categoria e politici interessati all’informazione [2] in cui si denunciava il Direttore del “Corriere della sera”, nonché i giornalisti che avevano nell’arco di pochi giorni violato ripetutamente le regole deontologiche con articoli zeppi di pubblicità redazionale.
«Non si tratta – scrivemmo – della solita pubblicità, bensì della pubblicità redazionale che introduce, occultata, la pubblicità di marchi di moda, prodotti farmaceutici, uffici turistici ecc. Sul “Corriere della sera”, Direttore Luciano Fontana, la pubblicità occulta (Native advertising”) è quotidiana, ricorrente, sfacciata, invadente. Intere pagine sono riempite di questo tipo di propagande aziendali. È pressoché sempre presente addirittura nella titolazione e nelle foto. È insomma costante affermazione di una frode pubblicitaria che è divenuta una linea editoriale». «Questa truffa si è data anche una “filosofia” e viene teorizzata. Il concetto di “pubblicità nativa” mira proprio a superare il vecchio concetto di pubblicità e a confondersi totalmente, anche nella forma e nella scrittura, con i contenuti redazionali, affinché il lettore non riesca ad accorgersi dell’inquinamento. È pubblicità che si camuffa da giornalismo. Il “Native advertising” è un’espressione che descrive una nuova tecnica pubblicitaria e un vero e proprio reato, una variazione specifica della truffa, ossia una forma di pubblicità a pagamento atta ad ingannare il lettore-consumatore: per generare interesse negli utenti, assume l’aspetto dei contenuti del vettore di comunicazione che la ospita. L’obiettivo è riprodurre nell’utente l’esperienza del contesto in cui il falso articolo-pubblicità è posizionato sia nell’aspetto sia nel contenuto. Se esiste la fattispecie della pubblicità ingannevole, quale pubblicità è più ingannevole di un articolo firmato da un giornalista che incorpora una velina di un ufficio stampa o direttamente un messaggio pubblicitario? Il lettore è convinto che quella sia l’opinione o la notizia selezionata da un giornalista, mentre invece è solo uno spezzone di un catalogo di moda o la segnalazione acritica di un prodotto».
«Facciamo anche presente che nell’attuale condizione della “carta stampata” e della concorrenza pressante cui è sottoposta, l’unica difesa dei giornali può consistere nel rigore dell’informazione e nella autorevolezza della testata. Ci dispiace che l’editore e il direttore, per una manciata di soldi “subito”, dilapidino un capitale di prestigio accumulato in più di cento anni di storia. Noi presentiamo l’esposto per il caso “Corriere della Sera” a mo’ di esempio perché è il quotidiano più venduto in Italia, ma facciamo notare che molti altri giornali di altri gruppi editoriali violano quotidianamente il codice deontologico sulla pubblicità occulta e il Contratto nazionale di lavoro».
«Bisogna tener presente che al rapporto testo pubblicità il Contratto nazionale di lavoro dedica un intero articolo (Art. 44) in cui specifica con chiarezza le responsabilità del Direttore: “Allo scopo di tutelare il diritto del pubblico a ricevere una corretta informazione, distinta e distinguibile dal messaggio pubblicitario e non lesiva degli interessi dei singoli, i messaggi pubblicitari devono essere chiaramente individuabili come tali e quindi distinti, anche attraverso apposita indicazione, dai testi giornalistici. Gli articoli elaborati dal giornalista nell’ambito della sua normale attività redazionale non possono essere utilizzati come materiale pubblicitario. (…) I direttori, nell’esercizio dei poteri previsti dall’art.6 e considerate le peculiarità delle singole testate, sono garanti della correttezza e della qualità dell’informazione anche per quanto attiene il rapporto tra testo e pubblicità. A tal fine i direttori ricevono periodicamente i pareri dei comitati di redazione». (…)
«Riteniamo – continuava l’esposto – che la persistenza costante della “Pubblicità nativa” sui nostri giornali meriti l’attenzione degli organi di disciplina professionali, ma anche dell’Agcom, del Garante antitrust per il fenomeno della distorsione della concorrenza commerciale, dell’Upa, del Giurì di autodisciplina pubblicitaria per eventuali scorrettezze di chi opera nel mondo della pubblicità». Ovviamente l’esposto era corredato dalla documentazione di 11 articoli-pubblicità pseudo occulti.
Il fatto denunciato era scandaloso? Ma no, anche molti lettori se ne saranno accorti e avranno smesso di acquistare il giornale. Il vero scandalo è stato nel silenzio tombale che ha accolto l’esposto. I destinatari, tutti, semplicemente non hanno svolto il loro dovere. Gli organi di disciplina dormono sonni tranquilli, l’Ordine, la Federazione della stampa e gli stessi Editori sanno benissimo che il Contratto che hanno firmato è superato dalla comune complicità. Più ridicola è stata la reazione del Giurì di autodisciplina pubblicitaria, che dimostrava che i pubblicitari non sanno neppure riconoscere quando un messaggio è pubblicitario o no.
Qui la proposta è ovvia, ma si contraddice da sola: gli organismi preposti alla disciplina e alla tutela dell’informazione possono tutelarla davvero, applicando le regole semplici e chiare che pure ci sono, se sono morte burocrazie complici? Dove sta il giudice di Berlino?
NOTE:
[1] Assai interessante è la lettera del 1943 inviata a Guglielmo Emanuel, Direttore del “Corriere della sera”, da Luigi Einaudi, liberale classico e rivoluzionario. Questa ne è la parte conclusiva: «Sono persuaso che, se il tuo giornale prendesse l’iniziativa di vere e proprie campagne, una o due per volta su problemi importanti per la vita nazionale, discutendoli a fondo e insistendo senza tregua per soluzioni non ispirate ad interesse di nessun partito, ma esclusivamente a quello collettivo, la tiratura non potrebbe non superare presto il milione di copie, per giungere alla lunga a cifre assai superiori al milione. (…) Se invece di prese saltuarie di posizione su molti problemi l’attenzione si concentrasse su quelli essenziali in maniera che fosse nel tempo stesso ineccepibile per solidità di ragionamento e di prove e per la risolutezza di conclusioni, i granisti [*i Crespi, proprietari del “Corriere della sera”] diventerebbero tremebondi e si prosternerebbero innanzi ai vostri piedi ringraziando ogni volta che vi degnaste di usar loro la finezza di prenderli a calci». [lettera citata da E. Marzo, Le voci del padrone. Saggio di liberalismo applicato ai media, p.185, Dedalo editore, 2006]
[2] L’esposto fu inviato a: Presidente Carlo Verna, Ordine giornalisti – Alessandro Galimberti, Ordine Milano, Francesco Caroprese, Ordine Milano, Consiglio disciplina Ordine dei Giornalisti, Consiglio Nazionale Ordine dei Giornalisti, Lorenzo Sassoli de Bianchi direzione upa, Mario Barbuto iap, Giurì di autodisciplina pubblicitaria iap, Consiglio disciplina nazionale Ordine dei giornalisti, Roberto Rustichelli agcom, Michele Ainis agcom. E ad alcuni altri, tra cui: Giuseppe Giulietti segreteria Federazione nazionale stampa italiana, Raffaele Lorusso segreteria fnsi, Andrea Riffeser Monti fieg, Ordine nazionale dei Giornalisti, Ordine regionale lombardo dei giornalisti, Agcom, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Upa, Giurì di autodisciplina pubblicitaria.
tratto da “NONMOLLARE” n. 163 del 03 febbraio 2022