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di Oreste Pollicino e Giulio Enea Vigevani
«Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri per fare quello che abbiamo promesso di fare fino in fondo senza rallentamenti e senza palle al piede (..) Siamo in democrazia, chi sceglie Salvini sa cosa sceglie».
Questo ha dichiarato il ministro dell’interno, ieri a Pescara. Meno di tre righe per esprimere uno dei più grandi ossimori costituzionali della narrativa politica italiana degli ultimi tempi.
Infatti, esattamente perché siamo in democrazia, nessuno può chiedere “pieni poteri” al popolo italiano , perché tale conferimento colliderebbe frontalmente con qualsiasi modello di democrazia moderna.
E ciò, innanzitutto, per una ragione di grammatica costituzionale. Le parole sono importanti e quelle pronunciate da Matteo Salvini richiamano, forse a sua insaputa, la grande storia. La richiesta di pieni poteri infatti non può non evocare il “decreto dei pieni poteri” adottato dal parlamento tedesco nel 1933, che determinò un’accelerazione verso la dichiarazione dello stato di emergenza e, nei fatti, diede avvio alla dittatura nazista. Ma già un decennio prima, il maestro di Hitler, in una “aula sorda e grigia”, sfidava il Parlamento italiano chiedendo “i pieni poteri perché vogliamo assumere le piene responsabilità”.
Le parole poi rimandano ai concetti. E dietro alla richiesta di attribuzione di pieni poteri vi è un concetto del tutto antitetico alla missione fondamentale del costituzionalismo: essere argine e limite al potere e alla sua concentrazione in capo ad un unico organo.
E non si tratta certamente di una missione recente: il principio di separazione dei poteri fa parte del Dna originario del diritto costituzionale liberale. Basti pensare a Montesquieu, che nel 1748 affermava che “tutto poi sarebbe perduto, se il medesimo uomo o il medesimo corpo di nobili o del popolo esercitasse tutte e tre le funzioni”. Vi è poi il celebre articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese del 1789, ove con chiarezza cristallina si afferma che «ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è determinata non ha una costituzione».
La frase di Salvini non pare peraltro dal sen fuggita. Pare semmai rivelare una concezione organica nel rapporto tra potere e popolo: il popolo è uno e uno è il capo, che ne è l’incarnazione.
Tutto il resto – ossia chi, nei modelli di democrazia pluralista come è (ancora) la nostra, esercita la funzione vitale di “contropotere” – sembra solo un orpello fastidioso: le opposizioni, per definizione serve dei poteri forti e antipopolari; gli organi di garanzia e i giudici, che prima di contraddire chi comanda “debbono farsi eleggere”; la libera informazione, che ostacola il rapporto diretto tra chi comanda e la massa. Il che non fa una grinza: il potere pieno non ammette per tesi un contropotere.
Paolo Ridola, maestro del diritto costituzionale comparato, ha ricordato di recente che Giovanni Spadolini, venticinque anni fa, scrisse che in democrazia chi ha la maggioranza è al governo, non al potere. Fare invece riferimento al concetto di “potere pieno” scompone in modo assolutamente intollerabile la dimensione della legittimazione del potere da quella del limite al potere stesso. Due dimensioni che invero debbono andare di pari passo.
Se il buongiorno si vede dal mattino, con riferimento alla campagna elettorale di fatto già iniziata, il timore è quello che le prossime elezioni siano un referendum tra due idee opposte del potere e dei suoi limiti, tra due concezioni della democrazia. Se così fosse, sarebbe comunque un arretramento drammatico, dopo decenni nei quali era condivisa l’idea che chi governa decide ma non comanda.