di riccardo mastrorillo
Ascoltiamo attoniti tesi politiche ed economiche, quantomeno fantasiose, sostenute peraltro anche da sedicenti liberali, riguardo la drammatica vicenda delle acciaierie di Taranto. L’ex ministro Calenda ha spiegato e, quasi con orgoglio, rivendicato, di aver firmato un contratto che prevedeva il diritto di recesso da parte di ArcelorMittal , nel caso fosse venuto meno lo scudo penale.
Sgombriamo subito il campo sull’esistenza di uno scudo penale: l’immunità prevista dal decreto legge 5 gennaio 2015, n. 1 non è applicabile. Il testo della norma recita: «Le condotte poste in essere in attuazione del Piano Ambientale di cui al periodo precedente, nel rispetto dei termini e delle modalità ivi stabiliti, non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario, dell’affittuario o acquirente e dei soggetti da questi funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale.» Ora, non volendo ripetere, come spesso capita, il principio liberale che le leggi dovrebbero essere norme generali di condotta, e per tali non specifiche e meno che mai individuali, la norma in questione è chiaramente incostituzionale, e vi sono importanti ed esemplificativi precedenti. Nel 2003 in piena epoca Berlusconiana venne varata la legge 140 disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato, che prevedeva all’articolo 1 uno scudo penale, limitato nel tempo per il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato, il Presidente della Camera dei deputati, il Presidente del Consiglio dei ministri e il Presidente della Corte costituzionale: La Corte costituzionale, con la sentenza n. 24 del 20 gennaio 2004 ne dichiarò l’illegittimità costituzionale. Ci pare estremamente probabile che, in caso di indagine penale, il pubblico ministero, che ha l’obbligo di esercitare l’azione penale, solleverebbe certamente una questione di legittimità costituzionale davanti alla suprema corte.
Diciamo con chiarezza che questa vicenda è intollerabile. Sarebbe un po’ come dire, per assurdo che, poiché la mafia dà lavoro a tante persone ed, in alcuni casi, è l’unica fonte di reddito per interi quartieri, si potrebbe ipotizzare uno scudo penale per le cosche; a patto che, con un cronoprogramma preciso, entro 3 anni rientrino nella legalità. Il principio giuridico sarebbe assolutamente equivalente e cioè assolutamente inaccettabile.
Ricordiamo i fatti. Nel 1995 lo stato vendette alla famiglia Riva l’acciaieria di Taranto, all’epoca ci furono grosse polemiche perché lo stato incassò circa 2500 miliardi di lire a fronte di un valore complessivo valutato in 4000 miliardi. Nel 2012 fu provato che l’acciaieria immetteva in atmosfera 688 tonnellate all’anno di polveri e che in sette anni erano stati accertati 174 decessi per tumore, causando l’intervento della magistratura che mise sotto sequestro gli impianti e aprì un fascicolo per disastro ambientale. Oggi l’impianto, gestito da un commissario straordinario prima e quindi dall’ArcelorMittal, è tenuto in funzione solo grazie a decreti che, di fatto, derogano i limiti di inquinamento.
Dall’estrema destra all’estrema sinistra tutti, con l’eccezione dei Verdi e dei cinquestelle (anche se quest’ultimi non sono molto chiari sulle loro posizioni), sono convinti assertori della necessità di sacrificare l’ambiente e la salute dei tarantini pur di salvaguardare i circa 12000 posti di lavoro. Da qui le più fantasiose e ardite posizioni espresse in questi giorni.
Crediamo sbagliato proporre un ordine di priorità, ma riteniamo indispensabile separare i piani di discussione.
Una questione è prendere atto che l’inquinamento è acclarato e documentato, va affrontato seriamente con la necessaria urgenza, se necessario, secondo qualsiasi principio di prudenza, anche attraverso il blocco degli impianti.
Il costo umano, sociale ed economico del perdurare delle emissioni è incalcolabile, ma certamente superiore a qualsiasi ricavo.
Le norme vanno rispettate sempre, se l’impianto non è a norma: è illegale e non è pensabile che un paese civile possa renderlo legale con un provvedimento esclusivo, che sospenda la validità dei limiti previsti da normative nazionali ed europee, per un singolo preciso impianto.
Un’altra questione è affrontare seriamente il dramma sociale ed umano dei 12000 lavoratori, di fatto ricattati dallo stato, i quali, pur di lavorare, rischiano letteralmente la vita. Non sarebbe meno costoso, in attesa della messa in sicurezza, fornire loro un’adeguata assistenza sociale?
Di fronte a questa emergenza, ignorata per anni, ma conosciuta ufficialmente almeno da sette, quanto è stato fatto? Possibile che in sette anni non sia stata garantita la messa in sicurezza dell’impianto? Non capiamo perché, se l’acciaieria è sottoposta ad amministrazione controllata dallo stato, debba essere poi gestita da un privato? Non capiamo come il privato dovrebbe accollarsi i costi dell’adeguamento alle norme, mantenere il livello di occupazione, produrre acciaio (insieme a svariate emissioni tossiche derogate con un provvedimento specifico) e magari anche ottenere un utile?