di paolo fai
DUE LETTERE NON PUBBLICATE su un articolo di Gabriele Lavia sul teatro (il Fatto quotidiano, 23 aprile 2020)
Lettera del 25 aprile:
Dalla riflessione di Gabriele Lavia sul teatro si sprigiona lo stesso fascino, la stessa malia che dal canto delle Sirene. Che ottunde, come è noto, le capacità raziocinanti.
Chi è rimasto indenne dal fluido incantatorio e ha invece letto con la necessaria lucidità le poetiche variazioni di Lavia sul tema teatro, avrà subito notato madornali sfondoni in sede filologica.
Intanto, l’accostamento di théa, ‘visione’, ‘spettacolo’, con theá, ‘dea’, e con theós, ‘dio’, è insostenibile, poiché la prima parola e le altre due derivano da radici del tutto diverse. Sono persuaso che Lavia abbia fatto la sua lettura del fenomeno teatrale inforcando gli occhiali di Heidegger (la spia, eloquente, è il riferimento ad aletheia come ‘disvelamento’ – svelamento e svelatezza, scrive Lavia – che è l’interpretazione di Heidegger di quella parola generalmente tradotta verità). Ma forse Lavia ignora che Heidegger leggeva il greco violentandolo, per farlo rientrare nelle sue categorie filosofiche, e saltando a piè pari le insidie filologiche, in cui non di rado inciampano i filosofi digiuni di filologia.
In un bel libro-intervista, La storia è la mia battaglia (Utet 2008), il grande grecista e storico Pierre Vidal-Naquet, richiesto su che cosa pensasse dell’uso del greco da parte di Heidegger, rispondeva: «Penso che Heidegger scivolasse proprio sul greco. È esattamente ciò che ha constatato Castoriadis, quando ha tenuto un ciclo seminariale sulla Grecia. Ogni volta che ha dovuto spiegare un frammento di Eraclito o di Parmenide è stato per dire che Heidegger non ci aveva capito assolutamente nulla…».
Tralasciando l’interpretazione di physis come “sorgere che tramonta – in se stesso – istante per istante” (mah?), dove Lavia stecca di brutto è quando scrive che «Tron è proprio un luogo fisico (si pensi ad “autodromo” che vuol dire “luogo delle automobili”)». Proprio no, caro Lavia: “dromo” con “tron” non ha niente a che fare, in quanto deriva da una radice che significa “correre”. Difatti, l’autodromo è la pista in cui corrono le auto da corsa (con quel suffisso si formano pure ‘velodromo’, ‘kartodromo’, etc.).
Lettera del 30 aprile
«Mai correggere chi sbaglia, perché non è educazione», dirà forse qualcuno. Non sono d’accordo. La leggo fin dal primo numero del «Fatto», caro Travaglio. Ed è sua abitudine sbertucciare i suoi colleghi di altri giornali quando li coglie in fallo linguistico. Se a sbagliare fosse un lettore “senza nome” e, dunque, senza autorevolezza, di quelli che affollano la rubrica delle lettere di tutti i quotidiani, nessuno ci farebbe caso. Ma quando a scrivere è un personaggio importante, un professionista della parola scritta e/o orale, come sono uno scrittore, un attore, un regista, uno scienziato, un cattedratico, ospitati sulle pagine di quotidiani come il «Corriere», «Repubblica», «La Stampa», «il Fatto», che dovrebbero “educare” migliaia di lettori, allora, lo sbaglio, se non è chiaramente imputabile a distrazione, a lapsus di quelli veniali, io penso che non debba essere scusato, anzi debba essere censurato pubblicamente.
Io l’ho fatto nei riguardi di un articolo di Gabriele Lavia apparso sul «Fatto» di giovedì 23 aprile scorso. Era un’articolessa sul teatro. Per quanto contestabili, non ho contestato le opinioni di Lavia sul teatro, ma le sue aberrazioni ermeneutiche su alcune parole del greco antico relative al teatro e agli dèi, frutto della sua spericolata fantasia. Una serie di minchiate a ruota libera, che facevano a pugni con le più elementari, ma rigorose, norme della filologia (interpelli, se vuole, il prof. Filippomaria Pontani, filologo, collaboratore del suo giornale).
Ho mandato al «Fatto» una lettera in cui denunciavo solo alcune delle castronerie laviane. Ma, finora, quella lettera non è stata pubblicata, e sono certo che mai sarà pubblicata. Ho anche notato, caro Travaglio, che, mentre lei censura chi muove critiche a qualche articolo dei suoi giornalisti e collaboratori, riempie spesso la rubrica delle lettere con testimonianze che hanno poco di elogiativo e molto di servile verso il suo giornale.
Dopo aver letto quel pezzo di Lavia e averlo commentato con sorrisi, anche per certa supponenza filosofica, da nipotino di Heidegger, con cui discettava su un certo lessico greco, avrei lasciato correre. Ma, quando l’indomani, lei apriva la rubrica delle lettere con la testimonianza di un lettore che si diceva “ammirato, incantato” per quella “perla” di Lavia, a quel punto non potevo più trattenermi dal denunciare i guasti che già il farneticante e diseducativo articolo di Lavia aveva provocato in un lettore poco avvertito e punto consapevole.
La colpa di Lavia è quella di non essersi attenuto al precetto del ben noto proverbio latino: “sutor, ne ultra crepidam”, ‘calzolaio, non andare oltre la scarpa’, cioè oltre le tue competenze. Lavia non faccia il filologo, non gli appartiene. Parli da attore e da regista, che è il suo mestiere (peraltro, ben fatto). Tanto, gli basti.