di gian giacomo migone
Milioni di parole scritte e dichiarate a proposito dell’ormai imminente elezione del Presidente della Repubblica ignorano o occultano una semplice verità: che quella carica, per il modo in cui è delineata dalla nostra pur sacrosanta Costituzione, se ne fosse investita la persona sbagliata, configurerebbe anche un pericolo.
Gli osservatori più acuti, ad esempio Gianfranco Pasquino, ricorrendo alla fisarmonica o ad altre metafore, hanno osservato che la storia del presidenzialismo italiano contempla un’ampia gamma d’interpretazioni dei suoi poteri, sempre rilevanti.
Il Presidente della Repubblica italiana, nella sua configurazione costituzionale, non ha funzioni solamente notarili o di rappresentanza – senza ricorrere ad esempi delle residue monarchie, viene a mente quello vigente nella Repubblica Federale Tedesca – né tantomeno quello di un presidenzialismo con responsabilità esecutive. Tuttavia, occorre aggiungere, per amore di verità storica, i casi in cui due presidenti, Antonio Segni con il Piano Solo, Giuseppe Saragat dopo l’eccidio di Piazza Fontana, hanno manifestato propensioni autoritarie se non golpiste. Altro che fisarmonica! Chi, se non il Presidente della Repubblica, può proclamare la necessità di superare i dettami della Costituzione vigente per salvaguardarne lo spirito? Persino il moderato René Coty in tal modo aprì le porte al presidenzialismo della Quinta Repubblica, ovviamente in ben altro contesto. Le versioni semipresidenzialiste attualmente in circolazione, tendenti ad escludere democratiche alternative di governo, rivelano una propensione strisciante verso unanimismi dettati da un’emergenza che si vorrebbe duratura, se non definitiva.
Vi sono altre ragioni latenti che spiegano il nervosismo che circonda la scadenza imminente, oltre al desiderio preminente della maggioranza dei parlamentari di restare in carica fino alla fine del loro mandato. La cronaca delle passate elezioni presidenziali registra i sentimenti antipolitici presenti nel Paese nelle occasioni in cui la scelta ha richiesto una lunga serie di scrutini andati a vuoto. Fu la strage di Capaci a interrompere la successione di scrutini inconcludenti per approdare nell’elezione – preziosa, ad avviso di chi scrive – di Oscar Luigi Scalfaro. Oggi, il contesto sia internazionale che italiano, è diversamente allarmante. In tutti i paesi occidentali si registrano episodi ed elementi di indebolimento della democrazia, dai provvedimenti di governo esplicitamente antidemocratici in alcuni paesi dell’Europa Orientale, agli atti drammatici che hanno segnato la contestazione diffusa dell’esito stesso delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Il nostro paese, per decenni primo della classe in fatto di partecipazione e di modalità di voto, è sceso a percentuali minime, né sfugga quel 40% che non esprime preferenze di partito quando interpellato, nei sondaggi d’opinione più accreditati.
Vengono in mente parole desuete. Occorre vigilanza democratica. Ma il miglior modo di vigilarla, la democrazia, è di praticarla, anche nelle circostanze più avverse. Procediamo con un esempio positivo. Sergio Mattarella pratica la democrazia quando rifiuta ogni suggestione di prolungamento del suo mandato, perché il ricorso a tale espediente, oltretutto ripetuto nel tempo, aggraverebbe la malattia a cui vorrebbe porre rimedio, sancendo, ancora una volta, l’impotenza dei partiti e la rinuncia dei grandi elettori a svolgere il proprio ruolo costituzionale. Vi è anche un aspetto offensivo di questa insistenza, da parte di chi vi facesse ricorso, perché troppi dei suoi fautori speculerebbero sull’età e la volontà dell’eventuale candidato per una soluzione non coincidente con un mandato pieno di sette anni, avendo come finalità prevalente quella di garantire la durata piena della legislatura.
Inoltre, l’autocandidatura più o meno esplicita di Mario Draghi, per la crescente opposizione che suscita la sua opera di presidente del consiglio, quantomeno non rafforza la democrazia claudicante. Si ridurrebbe ad una fuga dalle difficoltà di governo, una sorta di promoveatur ut amoveatur, incompatibile con il ruolo a cui egli aspira. Non a caso essa stimola la ricerca prematura di una soluzione congiunta per Palazzo Chigi che, per l’appunto, contiene il rischio di una sorta di semipresidenzialismo. Quale che sia il giudizio sul suo operato, ne va della nobilitate di Mario Draghi, delle pagine alte della sua storia personale, di non cedere ad una tale tentazione. Il suo salvataggio dell’euro ha realizzato una condizione essenziale perché il nostro continente non si riduca a terreno di scontro e di caccia da parte di soggetti più forti, a Washington a Pechino come a Mosca.
E’ essenziale che i grandi elettori, in gran parte parlamentari, non rinuncino alla libertà, giustamente assecondata dalla segretezza del voto, di esercitare il proprio compito costituzionale, senza vincoli di mandato, ovvero di partito. Eventuali scelte trasversali non devono essere la risultante di accordi preventivi di partito, ma frutto di una libera dinamica interna al corpo elettorale. Vanno inoltre registrate con sgomento, voci che ritengono addirittura normale condizionamenti internazionali alla loro scelta. Ad esempio, quello degli Stati Uniti la cui tutela della propria democrazia non ammette distrazioni.
Soltanto una via pienamente rispettosa di regole insite nella Costituzione può configurare la scelta di una donna (o di uomo) dalle impeccabili credenziali democratiche, non importa se proveniente dalla politica o dall’esercizio collaudato di altre responsabilità, capace di configurare la svolta democratica di cui il Paese necessita: super partes ma nemmeno politicamente asettica o sprovveduta, capace di garantire democrazia e libertà per tutti. Starà a costei (o a costui) incaricare colui o colei che sappia trovare nel luogo deputato che è il Parlamento, la propria maggioranza di governo. Draghi o non Draghi. E che non nomini Silvio Berlusconi senatore a vita.