9. 23 LUGLIO 2024 [angelo perrone]
La definisce «cervellotica». Il cuore del padre scoppia di dolore, e lui si trattiene a stento dal dire. Non sa darsi spiegazione della decisione della Cassazione riguardo all’omicidio della figlia. Come è possibile annullare l’ergastolo, giustificando l’assassino con lo stress da Covid? Sembra proprio la “cattiveria di una giustizia malata”, un modo di uccidere due volte la sua Lorena.
Era stato un brutale femminicidio: una brava ragazza di 27 anni, uccisa nel 2020 a coltellate dal fidanzato che prima l’aveva soffocata. Nemmeno difficile da decifrare: lui infermiere in una RSA privata per anziani, lei aspirante medico, in procinto di laurearsi, studiosa, diligente, apprezzata dai professori. Una vita di promesse e sogni.
Aspettative diverse nei due partner: il contesto tipico in cui può maturare la frustrazione dell’uno contro l’altro, quando c’è il malinteso senso di inferiorità del maschio rispetto all’autonomia (e “superiorità”) della donna.
E quanto alle regole del Covid, la stranezza di dare peso agli “stati emotivi e passionali”, che sono irrilevanti, e che sono stati persino smentiti nel processo: mentre lei rimaneva a casa a studiare durante il lockdown, lui se ne usciva la sera per andare a fare baldoria con gli amici e giocare alla playstation.
Quando la giustizia ci sorprende e stupisce, qualcosa non va. Non è possibile passare oltre, fare finta di nulla.
Solo pochi giorni fa, un altro caso, un altro groppo alla gola. C’era stata l’assoluzione di diversi imputati per il terremoto dell’Aquila del 2009 in cui erano morti diversi giovani, rimasti nelle loro case perché rassicurati a farlo, e invece uccisi dalle successive scosse terrificanti.
Non solo una questione di asserita mancanza di prove, anche una «condotta incauta delle vittime». Sufficiente ad escludere ogni responsabilità? La colpa delle morti è dunque degli stessi morti. Una decisione dal sapore pilatesco, che guarda più ai vivi che alle vittime.
La lacuna è forse quella di lasciare ai margini una necessità: andare nel profondo, scandagliare, verificare, affrontare il terreno complicato del raffronto di elementi contrastanti, prendersi il rischio della sintesi ragionata. In nome della verità.
Si deve sempre diffidare delle emozioni a caldo, del resto la giustizia esige altro, che si tenga conto di tutto, ma si sappia anche prescinderne, perché l’obiettivo necessario e impossibile, è quello: l’equilibrio e la misura. Così come va ricordato che le reazioni delle vittime sono inevitabilmente segnate dalla non accettazione della realtà, che rende inadeguata ogni decisione umana, e non possono essere metro di valutazione.
Eppure c’è bisogno che la verità umana, raggiungibile, corrisponda anche al senso comune, perché questo, al riparo da derive e distorsioni, racchiude un principio di verità. Può essere la conferma che giustizia è stata fatta. Casi come questi invece lasciano amareggiati e sgomenti.