Femminicidio e alibi del DNA: i rischi della genetica nelle scelte della politica

di angelo perrone

Suscitano incredulità e sconcerto le parole del ministro Carlo Nordio alla Conferenza internazionale contro il femminicidio. L’uomo accetta la parità con la donna, ma nel suo “subconscio il codice genetico trova sempre una certa resistenza”.

Sembra quasi una citazione tratta da un manuale di biologia ottocentesca, non il contributo di un ministro in un dibattito cruciale sulla violenza di genere.

1. L’alibi biologico: un inganno da manuale ottocentesco
Il ministro, pur riconoscendo la necessità di agire con leggi e prevenzione per rimuovere il senso di superiorità maschile sedimentato in millenni di sopraffazione, introduce un elemento di determinismo biologico. Suona come giustificazione scientifica per inaccettabili pregiudizi.

Si sposta l’attenzione dalle responsabilità umane a una sorta di destino inevitabile come se la violenza fosse un errore di codice inscritto.

2. La crisi del codice interpretativo
Ma l’inganno è doppio. Ci si chiede come un uomo di legge e di istituzioni possa ricorrere a un concetto pseudo-scientifico tanto debole e datato, ignorando decenni di studi sociali, psicologici e neuroscientifici che smontano l’idea di una resistenza genetica alla parità. Sembra che il ministro abbia un suo codice interpretativo, che non consente di riconoscere la natura del problema.

3. Soluzioni: leggi chiare, risorse, e sforzi congiunti
Queste polemiche suonano come una distrazione. La lotta contro la violenza di genere non ha bisogno di alibi genetici. Necessita di leggi chiare, repressione efficace, aiuti concreti e immediati alle donne e, soprattutto, di un impegno educativo forte e senza riserve.

Non ha forse la politica il dovere di disinnescare la sopraffazione, anziché trovarne una presunta origine biologica? La leggerezza nella postura istituzionale proietta un’ombra inquietante sull’autorevolezza richiesta per la gestione delle riforme necessarie al Paese.

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