di maurizio fumo
- A) “Il giudice, quando non accoglie la richiesta di archiviazione, dispone con ordinanza che, entro 10 giorni, il pubblico ministero formuli l’imputazione: entro due giorni dalla formulazione della imputazione, il giudice fissa, con decreto, l’udienza preliminare”.
- B) “Il P.M. è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede”.
La prima frase (A) riproduce il quinto comma dell’art. 409 del codice di procedura penale (tutt’ora in vigore, non inventato dal GIP di Roma); la seconda (B) proviene da “fonti” del Ministero della Giustizia, palazzo nel quale (solo ora, evidentemente) si sono accorti che questo controllo del giudice sul P.M. (“monopolista”) non va bene.
Se non bastasse l’invocazione della “razionalità”, ecco pronto un bel sofisma: il principio dell’in dubio pro reo impone la soluzione “liberatoria”. Il fatto è che quel principio deve applicarlo il giudice, non il rappresentante dell’Accusa; costui, al momento, però sembra diventato il beniamino dei politici che si sentono (o si dichiarano) oggetto di persecuzione.
Tuttavia, se “il sistema” prevede che il P.M. non possa archiviare motu proprio, ma deve rivolgersi al giudice deve (“razionalmente” direbbe Nordio) prevedere che il giudice possa essere in disaccordo. Ma questi qui non erano quelli che dicevano che il P.M. è semplicemente l’avvocato dell’Accusa che deve andare, col cappello in mano, dal giudice? E poi: ricordate lo strapotere delle Procure? Ricordate i giudici “appiattiti” sulle richieste del P.M.? Accantonate (per ora) questi simpatici slogan, ma non dimenticateli perché potrebbero tornare utili – c’è da scommetterlo – alla prossima occasione. Questa è infatti la concezione del diritto processuale penale che coltiva la classe politica (questa al potere adesso, in particolare). Le regole del processo si fanno e si disfano a seconda delle convenienze. Insomma: una procedura penale malleabile, plastica, mutevole, secondo i desiderata degli interessati (gli imputati/indagati, ça va sans dire), in applicazione della consolidata strategia berlusconiana di difendersi cambiando le regole.
Che c’è di male? Il principio della separazione dei poteri è (formalmente) rispettato. Nella sostanza però non lo è affatto se il potere legislativo (o esecutivo travestito da legislativo) interviene “chirurgicamente” (e al bisogno) sulle norme che, in quel momento, risultano sgradite. Il parallelo/paragone con la partita di calcio e sull’eventuale cambio delle regole nel corso dei 90 minuti di gioco è troppo ovvio e, dunque, nemmeno vale la pena di evocarlo.
Ma poi vediamolo più da vicino questo “monopolista”, secondo le nuove direttrici che vorrebbero tracciare a via Arenula: il monopolio si eserciterebbe quando il PM si pronunzia a favore dell’indagato (richiesta di archiviazione, appunto), non invece quando, non convinto della assoluzione in primo grado, vorrebbe appellare la sentenza. Già la Corte costituzionale ha preso posizione contro questa ipotesi, bocciandola, in quanto essa introdurrebbe “una dissimmetria radicale fra i poteri delle parti necessarie del processo penale, poiché, a differenza dell’imputato, che rimane abilitato ad appellare le sentenze che affermino la sua responsabilità, il pubblico ministero viene totalmente privato del simmetrico potere di proporre doglianze di merito avverso la pronuncia che disattenda in modo integrale la pretesa punitiva”. Così testualmente la Corte nelle sentenze 26 e 320 del 2007, ma la cosa non sembra turbare i giuristi di palazzo che intendono riprovarci. Non si sa bene perché, ma sembrerebbe che nel processo penale ci sia un solo protagonista, l’imputato e non anche (quasi sempre) la persona offesa, che potrebbe essere offesa due volte in presenza di un’archiviazione arbitraria o di un’assoluzione sbagliata. Sottoporre la prima al vaglio di un giudice e la seconda al riesame di un giudice sovraordinato non dovrebbe avere nulla di scandaloso, né dovrebbe far gridare al fumus persecutionis: si tratta di normale dialettica processuale e di equilibrato sistema di pesi e contrappesi tra Accusa, Difesa e Giudicante.
Il fatto è che il progetto politico della così detta riforma della giustizia ha obiettivi che nulla hanno a che vedere con il reale e assorbente problema che connota questo settore della vita pubblica: la lentezza dei processi (penali e, ancor più, civili). Il richiamo che da ultimo ha fatto sulle pagine del CORRIERE Stefano Passigli (25 giugno “La vera riforma è sui tempi”) non sembra aver suscitato eco alcuna. Non che sia una denuncia originale, ma, appunto per questo, qualcuno (magari anche a via Arenula) potrebbe prestarle orecchio. La soluzione sarebbe tutt’altro che agevole, ma almeno potrebbero provarci o comunque mentire dicendo che ci proveranno. Invece sembrano in tutt’altre faccende assorti: reati universali per sanzionare condotte che in altri paesi sono lecite, decreti anti-rave e altre inutili duplicazioni di norme incriminatrici già esistenti, aumenti di pene edittali come unica risposta – mediatica – a specifici fatti di cronaca ecc., ma, principalmente, separazione della carriere, allo scopo di rompere quella unicità di status, voluta dalla Costituzione, che, ad oggi, riunisce magistrati giudicanti e magistrati requirenti. Non sappiamo se verrà nuovamente messa in circolazione la fake new (rimbalzata all’epoca dei falliti referendum) in base alla quale lo stesso magistrato, nello stesso processo, potrebbe “saltare” da un ruolo all’altro (in realtà oggi chi cambia funzione deve cambiare distretto, cioè, in genere, anche regione), ma sta di fatto che il P.M. “monopolista” a senso unico, cucito a doppio filo con la Polizia giudiziaria e senza più alcun rapporto organico con la giurisdizione, sarà inevitabilmente attratto nella sfera del potere esecutivo. Tra quale anno poi, questa situazione di fatto sarà matura per subire una trasformazione anche de jure. Più che un avvocato dell’Accusa, il P.M. sarà un funzionario del potere, che potrà silenziare, insabbiare, affossare o semplicemente ignorare quei fatti-reato (si tratti di falso in bilancio, bancarotta fraudolenta, rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione o altro) che possano dar fastidio a chi gli darà direttive. Insomma, i giudici saranno chiamati a giudicare solo su quei fatti che il P.M. (“monopolista”) vorrà selezionare, senza possibilità di sindacarne le scelte. Come è stato significativamente detto, ammonendo chi ancora pretende di esercitare il controllo di legalità: lasciate lavorare chi vuol fare! Se in regime di monopolio, è meglio.