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L’apartheid giudiziario di Mr. Nordio 

di maurizio fumo

Partiamo dal presupposto che un governo e la sua maggioranza, fino a prova del contrario, non progettano riforme inutili. Ogni mutamento legislativo ha (o dovrebbe avere) una sua ratio: deve insomma mirare a uno scopo pratico da raggiungere, deve proporsi di ottenere un risultato; utile o dannoso, secondo i punti di vista.

Fatta questa premessa, appare lecito chiedersi quale sia la ragione per la quale si vuole separare la “carriera” del PM da quella del magistrato giudicante.

La domanda è tutt’altro che oziosa, dal momento che, con la c.d. “Riforma Cartabia”, è stata introdotta una separazione delle funzioni  (giudicanti e requirenti) che rende di fatto quasi impossibile il passaggio di un magistrato da un ruolo all’altro. Infatti tale passaggio può avvenire una sola volta nel corso di tutta la vita professionale e comporta che chi cambia funzione debba cambiare anche corte di appello, il che, il più delle volte, determina anche che si debba andare ad abitare in altra regione (sono poche le regioni nei cui confini vi siano più corti di appello).

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La riforma del Csm alla prova della Costituzione

di Angelo Perrone 

La riforma del Csm una necessità condivisa, ma quella proposta dal ministro 5Stelle Bonafede è la risposta della politica allo scandalo delle toghe, scoppiato con il “caso Palamara”. C’è il rischio di trascurare problemi di fondo per “spazzare le correnti”. In gioco è l’equilibrio tra politica e giustizia. L’indipendenza della magistratura non è privilegio dei singoli ma garanzia per ogni cittadino

Era allo studio da tempo la riforma del Consiglio superiore della magistratura, ora approvata dal governo su proposta del ministro della giustizia, il 5Stelle Alfonso Bonafede, non senza contrasti all’interno della maggioranza. Arrivare alle nuove regole però non sarà facile né rapido. Lo schema elaborato dovrà affrontare un percorso lungo, dall’esito incerto, come emerge dalle polemiche di questi giorni.

Colpisce l’intensità delle critiche. Sia tra le forze politiche sia all’interno della magistratura e dell’avvocatura. La strada sarà davvero complicata. Stavolta, accanto ai propositi mai sopiti di spingersi oltre il segno della Carta costituzionale, e dunque di alterare l’equilibrio dei poteri, è l’attualità ad offrire argomenti di rilievo al dibattito incandescente.

Il rischio è che le ragioni contingenti rendano torbida la discussione, distolgano dalle questioni essenziali, in nome della fretta e dell’emotività. Le soluzioni possono davvero diventare l’ennesimo problema. Sullo sfondo, il pericolo espresso senza mezzi termini dal vicepresidente del Csm David Ermini. Accanto alle tante cose indilazionabili, si delinea la minaccia di una (pericolosa) «riduzione della discrezionalità del Csm». Non una cosa di poco conto: l’alterazione del “volto” istituzionale del Consiglio in senso opposto al disegno costituzionale.

È evidente infatti che il progetto non risponde solo alla necessità di mettere mano ad una riforma radicale, dopo il fallimento di quella del 2006 (proponente Mastella che aveva fatto “tesoro” del lavoro del predecessore, il leghista Castelli). Piuttosto, è inevitabile leggere il testo come la risposta della politica allo scandalo delle toghe scoppiato ormai un anno fa con il “caso Palamara”, il magistrato al centro di intrighi di potere, e accusato di corruzione.

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