di enzo marzo
«Una giornata contro i poteri che non amano l’informazione»: come si può non aderire a una iniziativa contro “il potere”, anzi, i poteri che stringono in una morsa la libertà d’informazione?. «Eppure, eppure», direbbe il poeta giapponese Issa.
La manifestazione organizzata da quella che chiamiamo dall’inizio della direzione Calabresi “la repubblica 2.0” è fuorviante, forse ingannevole, sicuramente controproducente per l’informazione nel nostro paese, perché non affronta davvero il problema. Ci fa tornare in mente quegli impostori che un paio di migliaia di anni fa sporcavano il loro mantello col sangue dei martiri per acquisire meriti non propri.
Certo, il punto di partenza è scontato ed evidente. Le condizioni dell’informazione in Italia sono deprimenti, neppure la catastrofica classifica di Reporters Sans Frontières le fotografa nella loro vera miseria. Le volgarità dei casaleggini, il Grillo che vuole vomitare cronisti e altre amenità del genere la dicono lunga soltanto sulla rozzezza della classe dirigente del “cambiamento”. La loro ferma denuncia è necessaria, ma fermarsi lì occulta un disastro ben più preoccupante. Da alcuni decenni, con più precisione dall’inizio del secondo dopoguerra, è uscita dall’agenda politica italiana la questione della libertà d’informazione. I liberali la posero, ma il regime democristiano tacitò tutto. Poi il vuoto progettuale del riformismo subalterno alla Dc dei partiti laici e il disinteresse genetico comunista per le questioni di libertà fecero il resto.
Lo vogliamo fare un ritratto molto sintetico, però realistico, dell’attuale situazione?
– L’informazione “stampata” non è libera, stretta dall’intreccio perverso della politica con l’editoria (tutta, anche se persino il M5s abbocca alla leggenda dell’esistenza di editori puri e non puri). Non esiste alcuna divisione tra i poteri politici, economici e mediatici. La divisione dei poteri tanto amata dal pensiero liberaldemocratico è totalmente sconosciuta.
-I giornalisti hanno perduto ogni autonomia che proveniva loro dal contratto a tempo indeterminato, i Direttori non possono che essere semplici “impiegati” degli editori, e soprattutto la nuova leva è stata ridotta al precariato e quindi soggetta al ricatto permanente da parte della Direzione e della Proprietà. I giovani vengono ricompensati da meno di 5 (cinque) euro lordi a una decina di euro o poco più ad articolo. Quel che è rimasto di pregevole nel giornalismo italiano ha dell’eroico.
– I lettori non hanno mai acquisito alcun diritto, al contrario di molte altre categorie di consumatori. Persino l’unica traccia di un diritto scritta nella legge del 1948 (diritto di rettifica) non è stata applicata mai alla lettera. Del diritto di replica non se ne parla nemmeno. Nessun giornale italiano offre i servizi di un Garante dei lettori.
– La televisione pubblica non è stata mai libera. Però ora dobbiamo persino rimpiangere quella forma perversa di pluralismo realizzato dalla “lottizzazione” che è stata travolta dalla riforma Renzi, il più alto livello di concentrazione di potere nella mani del governo che esista nelle televisioni pubbliche dei paesi non dichiaratamente totalitari. Altro che le ingiurie di provenienza guatemalteca e le invereconde liste folcloristiche di giornalisti vicini o lontani dal potere : è imperdonabile che il cosiddetto “governo del cambiamento”, senza battere ciglio, abbia fatto sua la legge liberticida renziana, (dopo le massicce quanto ipocrite proteste nel momento della sua attuazione) per impossessarsi della Rai con una divisione totale delle spoglie. Passando persino da una lottizzazione tra maggioranza e minoranza a una lottizzazione integrale all’interno della coalizione di governo. Il M5s non ha nemmeno posto la questione della possibilità di una riforma a costo zero che avrebbe auto conseguenze anche sulla “carta stampata” e si è fatto complice dell’accordo Salvini-Berlusconi sulla Presidenza della Rai. Una vera indecenza.
Ma non ci si può fermare lì. Negli ultimi anni, quelli della rovina della sinistra, due macroscopici casi ci mostrano meglio il paesaggio deturpato. Due casi che sono stati denunciati troppo poco e su cui non si è riflettuto per niente.
Il primo coinvolge proprio l’editore de “La Repubblica”, che all’improvviso ha messo in atto una concentrazione di testate che per numero di lettori ma soprattutto per la loro importanza geografica era del tutto inedita. Aver saldato in un’unica mano la “Stampa” di Torino, il “Secolo XIX” di Genova e la “Repubblica” di Roma avrebbe dovuto preoccupare molto. Anche per le modalità dell’operazione, che ha visto all’oscuro persino il grande Fondatore. L’esito si è visto subito: cambiamenti di direttori e mutamento di 180 gradi delle linee tradizionali di quei giornali, soprattutto della “Repubblica”. Per questo cominciammo a chiamare “Repubblica 2.0” il quasi house organ del nazareno verdinian-renziano. Dovemmo assistere alla lunga marcia durata qualche mese di Scalfari che, in occasione della grande battaglia referendaria del 2016, settimana dopo settimana, passettino dopo passettino, passò dal No più categorico al SI’ con molte garanzie e condizioni, al SI’ con le braccia alzate. Riuscendo persino a danneggiare Renzi, facendolo rimanere in solitudine con la sua presunzione e scarsa conoscenza degli italiani. (Da notare che Calabresi, e ovviamente a ruota Serra, in seguito addebitarono la deprimente collocazione dell’Italia nella classifica di Reporters Sans Frontière non alla riforma Tv di Renzi, né alla concentrazione operata da De Benedetti, bensì alla presenza di minacce mafiose per alcuni cronisti).
Se il centrosinistra non ride, la destra dovrebbe piangere a dirotto. Prima di tutto il “Giornale” di Paolo (sic!) Berlusconi è in sostanza fuorilegge, perché viola la norma della legge Mammì (riforma fatta su misura per Berlusconi) che prevede la proibizione del possesso di giornali a concessionari di frequenze pubbliche. E non sono soltanto insinuazioni, perché esiste una sentenza del 1997 che accertò che Silvio Berlusconi è il vero editore e suo fratello Paolo soltanto un prestanome senza ruolo, messo lì proprio per aggirare la legge Mammì. Ovviamente i governi di centrosinistra che si sono succeduti per oltre vent’anni non hanno mai avuto la correttezza, né il coraggio, di ripristinare la legalità.
Ma altrettanto indegno è stato il golpe Angelucci-Lotti del 2016 su “Libero”. “Libero” è uno scandalo a cielo aperto. Il suo editore, che possiede anche il “Tempo” di Roma, è il prototipo dell’editore più che impuro. Antonio Angelucci & famiglia da decenni sono palazzinari che si dedicano al settore sanitario. La loro storia giudiziaria non è riassumibile in poche righe. Nel loro curriculum ci sono: autorizzazione all’arresto; mandati di cattura per il figlio Giampaolo e per altri 12 indagati, nell’ambito di un’inchiesta per truffa da 170 milioni di euro ai danni della Regione Lazio; inchiesta, assieme a tre dei figli, per associazione a delinquere finalizzata a reati tributari nel 2014. Infine, nel campo editoriale, il Parlamentare non è da meno: Secondo Wikipedia: «Formalmente Libero era edito dalla Fondazione San Raffaele, un ente senza scopo di lucro. Mentre la testata del Riformista è affittata da anni alla cooperativa Edizioni Riformiste. Nella realtà invece i veri editori di entrambi i quotidiani sono società della galassia Tosinvest (alcune anche in trust lussemburghesi) tutte riconducibili ad Antonio Angelucci, attuale deputato del Pdl e fondatore di un «impero» economico che spazia dall’editoria alla sanità passando per quote rilevanti in banche come Capitalia (oggi Unicredit). Insomma: “Le due imprese editrici sono condotte da persone di fiducia del gruppo Tosinvest” e “operano in coordinamento con tutto il gruppo Tosinvest di cui la Finanziaria Tosinvest Spa rappresenta il motore economico”. Ai vertici di questa catena di controllo occulta sono collocate due società lussemburghesi, T.H. S.A. e SPA di Lantigos S.C.A., che si trovano al medesimo indirizzo nel Granducato e sono entrambe riconducibili alla famiglia Angelucci in generale e all’onorevole Antonio in particolare. Tutti fatti dimostrati – scrive l’Agcom – “almeno dall’anno 2006”».
Le parallele vicende giornalistiche raggiungono anche punte di ridicolo: Nel 2003 “Libero” ha chiesto ai proprietari del bollettino “Opinioni nuove” di prendere in affitto la testata. Il quotidiano diventa così ufficialmente il supplemento dell’organo ufficiale del Movimento Monarchico Italiano.
Il “monarchico “Feltri lo dirigerà facendone un quotidiano-trash, tra inchieste, scandali e bufale che i lettori non avranno dimenticato. Passano anni, poi il Golpe estivo del 2016. “Libero” è in quel momento diretto da Belpietro, che schiera il quotidiano sulla posizione del NO, convinto che il suo editore Antonio Angelucci, parlamentare berlusconiano, segua le indicazioni del suo Capo che si è pronunciato già contro nel voto per il referendum costituzionale.
Ingenuo. Sottovaluta il precedente imbroglio, perché di questo si tratta, scoperto e sanzionato dall’Agcom. Anche qui ci affidiamo alle fonti: «Nei sette anni che intercorrono dal 2003 al 2009, “Libero” ha beneficiato di contributi pubblici per 40 milioni di euro. Nel febbraio 2011, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ha sanzionato il senatore Antonio Angelucci per omessa comunicazione di controllo per i giornali “Opinioni Nuove Libero Quotidiano” (“Libero”) e “Il Nuovo Riformista”. La Commissione Consultiva sull’editoria presso la Presidenza del Consiglio, preso atto della sanzione comminata dall’Agcom, ha stabilito che i due quotidiani dovranno restituire i circa 43 milioni di euro di contributi percepiti negli anni 2006-2010».
Quindi Angelucci deve ridare i soldi incassati illegittimamente, e quindi l’editore di “Libero” non è libero, e quindi il suo giornale deve contraddire sé stesso e la linea della sua parte politica. Ma che problema c’è? Dopo aver contrattato con Lotti la solita rateizzazione alla leghista, consegna immediatamente su un piatto d’argento la testa dell’allora direttore, Maurizio Belpietro. Il boia è ovviamente il solito Feltri che, scopertosi improvvisamente renziano e verdiniano, non si tira mai indietro quando un editore vuol far fuori un direttore. Fece lo stesso quando Berlusconi liquidò Montanelli e Orlando. Il giorno dopo il lettore di “Libero” (bisognerebbe sanzionare penalmente l’uso comico di questo aggettivo) va in edicola e scopre che la carta straccia che ha comprato è passata dall’antirenzismo al renzismo, dal No al Si’. In una notte. Ora “Libero” feltriano è leghista sfegatato, ma ormai vende così poco che è ridotto a fare concorrenza al “Vernacoliere”, che almeno usa gli insulti e le scurrilità con più spirito. Invece Feltri è alle “patate bollenti”, è purtroppo diventato acido, funereo, sboccato, è sempre un reazionario trasformista ma non si accorge più come una volta neppure delle gaffes in cui precipita: l’altro giorno ha titolato il suo giornale chiedendosi «quanto costerà» allo Stato il rapimento di una povera ragazza italiana in Kenia. Noi non lo sappiamo, ma sappiamo con precisione quanto è costato “Libero” allo Stato: ben 43 milioni, e altrettanto sono gli ammanchi del suo odierno patron leghista.
Il povero Belpietro (lui sa quanto lo detestiamo, ma ci fa simpatia nelle vesti della vittima della “libertà” di stampa all’italiana) per una volta sulla sua “Verità” scrive la verità: «Può un presidente del Consiglio [Renzi] incarognirsi a tal punto per le critiche e le notizie pubblicate da pretendere la testa del direttore del giornale che quelle critiche ha stampato? Quando governavano Craxi e Berlusconi c’era chi s’indignava di fronte alle pressioni esercitate sulla tv, soprattutto quella pagata con i soldi pubblici. Ora che la televisione di Stato invece dipende direttamente dal governo e i principali giornali sono messi al guinzaglio, i tanti indignati speciali che per anni si sono strappati le vesti di fronte alla libertà violata tacciono e voltano la testa dall’altra parte». Parole che sarebbero ancora più “sante” se fossero accompagnate dalla denuncia dei retroscena che riguardano il suo ex editore.
Oggi si vuole celebrare la libertà d’informazione. Facciano pure. Facciamo pure. Noi ci prendiamo la libertà di riderne di fronte ai berlusconi, ai renzi, ai salvini, ai di maio, ai feltri, ai calabresi, ai foa dominanti. E scusate se non possiamo citare tutti.
impeccabile e assolutamente deprimente. Sarai, caro Enzo, accolto dal silenzio. Capisco, di tanto in tanto, che cosa vuole dire “tolleranza repressiva”. Collusione è, invece, l’ipocrita manifestazione per la libertà di stampa ad opera di giornalisti con grandi propensioni all’inchino.
E’ tutto agghiacciante. L’ ipocrisia è ormai il minimo comun denominatore dell’ informazione di massa in Italia.