La scomparsa di Giulio Giorello ci ha profondamente affranti. Critica liberale non è solamente una rivista e una Fondazione che fanno opera di testimonianza di un liberalismo autenticamente progressista, è una cerchia relativamente ristretta di persone che cercano di vivere avendo come stella polare il valore della libertà. E quando se ne va uno che sentiamo dei nostri, il dolore è più profondo perché se ne va un sodale. Giulio era uno spirito libero e liberale. Ce ne sono troppo pochi.
Quando, l’anno scorso, abbiamo deciso di celebrare l’anniversario di Critica liberale con un Convegno che sentivamo un po’ come riassuntivo di tutto il nostro impegno di mezzo secolo, non abbiamo avuto alcun dubbio: la lectio magistralis doveva essere pronunciata da Giulio Giorello. E egli è venuto a Roma e ci ha offerto una vera lezione . Mentre parlava, sul tavolo aveva qualche appunto e un solo libro, impregnato di secoli di civiltà liberale: Autorità e individuo, un volume di Bertrand Russell. La sua lezione, che qui riportiamo integralmente, rappresenta uno dei sempre più rari esempi di comunione tra una cultura sterminata e passione politica. Tra spirito critico e volontà di fare. Tra devozione verso il dubbio e convinzioni laiche non fanatiche. Le sue parole potrebbero costituire il programma di un partito politico, di quello che noi di “Critica” chiamiamo “il partito che non c’è”. Purtroppo il nostro paese sta sprofondando in una decadenza che appare inarrestabile. L’unica consolazione è che, in questo deserto intriso d’ignoranza e di opportunismo, a noi e ai giovani nessuno potrà sottrarre il libri di un Russell e di un Giorello. [e.ma.]
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DISSENSO, PENSIERO CRITICO E RICERCA SCIENTIFICA
di Giulio Giorello
Per me è un grande onore e un grande piacere essere qui con voi, a toccare dei temi che mi sono sempre stati a cuore e che, in questi ultimi anni, credevo fossero diventati quasi patrimonio comune tranne, dalla lettura della cronaca quotidiana, scoprire che, invece, sono messi sotto attacco di svariate forze reazionarie.
Se anche io dovessi tornare indietro e dovessi indicare non una origine in senso stretto del liberalismo, ma una battuta che rende lo spirito del liberalismo, mi verrebbe in mente una frase del 1644 del poeta e scrittore politico John Milton dalla sua Areopagitica, che è un libro in difesa della libertà di stampa e contro la censura, un testo che invita tutte le persone che hanno un minimo senso della virtù a unirsi «contro la testarda smania di proibire».
Consideriamo la progressiva estensione dei diritti, a cui l’esperienza dei popoli europei è andata incontro, dopo Milton, con John Stuart Mill nell’Inghilterra vittoriana, ma anche in Francia fin dagli esperimenti della Repubblica francese, il tema che unisce è l’idea che la progressiva estensione di diritti nasca da un fenomeno che gli epistemologi chiamano “tensione di concetti”. Questa tensione ha riqualificato l’emancipazione degli oppressi, ha dato armi contro la discriminazione e ha mutato sostanzialmente il nostro arredo del mondo.
Il punto di fondo di questo atteggiamento è stato la difesa a oltranza dell’autodeterminazione degli individui. Qui è emersa la libertà di sperimentare le più diverse forme di ricerca, ma anche di stile di vita, e il potenziamento delle sfere di autonomia dei singoli, nonché delle comunità; ricordando, però, che le comunità non sono entità superiori agli individui, sono fatte da individui. E ricordiamo per chi ama adesso riempirsi la bocca del termine “popolo” che, almeno nella lingua inglese, “people” è plurale e vuol dire un insieme di persone.
Sembrerebbe che alcune di queste considerazioni dovrebbero essere abbastanza ragionevoli, ma se si dice così, si dimentica la forza eversiva del progetto che è stato elaborato sulla falsariga di quello che chiamerei “il coraggio degli illuministi”. Per citare uno per tutti: «Osa sapere, abbi il coraggio di servirti della tua propria individuale intelligenza». Così Immanuel Kant. Poi tradito dalle costruzioni retoriche degli idealisti tedeschi.
Eppure, se da una parte dobbiamo osservare come sia farraginoso ed esitante il carattere, in Europa, di tali esperienze “progressiste”, mi sembra che sia giusto sottolineare che, al contrario di quanti in Italia dicono “per carità, non cominciate con richieste troppo audaci, aspettate il momento futuro più adatto”, il vero futuro, il nostro futuro, non sarà tra un numero di anni che si allunga o si accorcia a seconda degli interessi di questo o di quel politico. Il nostro futuro è qui, il nostro futuro è adesso.
Lo dico subito, in un momento in cui sta riemergendo una penosa retorica della famiglia, che nulla ha a che fare con una seria considerazione delle condizioni materiali in cui vivono ancora non poche famiglie del nostro Paese. In un momento, appunto, di questo tipo, sarebbe bene ricordare alcuni dei filoni che hanno attraversato quella tradizione che prima è stata ricordata e in cui si possono ritrovare i germi nel nostro Cattaneo, come in Luigi Einaudi, o in Gobetti.
Intanto, proprio adesso perché non lottare in maniera coraggiosa ed esplicita per il pieno riconoscimento delle unioni di fatto, etero o omo che siano? Secondo, perché non mettere a fuoco l’esigenza della concessione del diritto di adozione per coppie di questo genere? Terzo, tanto per fare riferimento al nostro sistema giuridico, riesaminare la legge n. 40/2004 e, in particolare, cercare di ridefinire nel senso meno proibizionista possibile gli argomenti controversi? Faccio mio l’elenco che pochi giorni fa ha dato il professor Carlo Alberto Levi dell’Università di Pavia, quando ha indicato diagnosi pre-impianto, trattamento e conservazione degli embrioni, fecondazione eterologa. Tutte questioni che venivano considerate spesso dai “progressisti” come troppo audaci.
Ma andiamo avanti. Dopo la legge n. 40 perché non pensare a una difesa a oltranza della legge n. 194, non fosse altro per limitare, specie negli ospedali, che sarebbe deputati a eseguire nelle modalità previste tale legge quando si richiede, una «obiezione di coscienza» che di fatto non è altro che una nuova costrizione per chi la subisce?
E poi, perché non esaminare i procedimenti che rendano più semplici e brevi le meccaniche del divorzio? Oppure perché non arrivare a una legge sulla fine della vita, che rispetti davvero la volontà dei singoli individui?
E ancora, come temi più generali, al primo posto parità di genere, con una serie di punti esclamativi. Poi, per esempio, se si parla qualche volta di sovranità del consumatore che non ha niente a che fare con i sovranisti, semplicemente vuol dire che io sono il miglior giudice della mia salute fisica, spirituale, morale: così nella formulazione data da John Stuart Mill nel Saggio sulla libertà, perché non si pensa a una progressiva riduzione dei divieti circa l’assunzione di varie sostanze che «fanno male»: alcol, sigarette, droghe leggere o magari pesanti? Suvvia, anche il troppo cioccolato fa male! Andiamo avanti: difesa della libertà di stampa nelle sue funzioni di critica del potere e di chi lo esercita. Diritto di voto, qualche modalità per gli immigrati che hanno una posizione stabile nel Paese: pagano le tasse, perché non dovrebbero votare? Si è fatta una rivolta, che poi è anche una rivoluzione, nelle colonie americane su un punto analogo a questo. E ancora: difesa del paesaggio nel senso più ampio possibile del termine, come bene comune. Protezione degli esseri viventi che non sono umani. Alludo in particolare agli animali, ma anche il mondo vegetale potrebbe avere in questa prospettiva un legittimo diritto.
E poi, questo è un punto che a me sta personalmente a cuore, piena garanzia per l’esercizio della libertà religiosa. Insomma, ciascuno sia libero di erigere sinagoghe, chiese cattoliche o protestanti, moschee, ecc. E non sarebbe ora di fare una seria revisione del Concordato, introdotto nel nostro Paese dentro la Costituzione con l’Articolo 7? Quando dico revisione io intendo una cosa ben precisa: eliminazione. In modo da avere veramente nel nostro Paese forme di libertà religiosa, o di non religione, che altri Paesi per ragioni storiche differenti hanno ottenuto, sebbene spesso in forme piuttosto criticabili.
E poi, l’ultimo punto che mi preme, libertà di ricerca scientifica. La ricerca nella scienza è in piccolo il modello di una «società aperta» in grande. E in questo senso è importante che diventi l’asse di un rinnovamento liberale. La ricerca scientifica ha sottolineato il principio, che ha un’origine in una battuta di Euripide, ma in realtà è diventato abbastanza abituale già ai tempi di Milton: se uno ha qualcosa da dire in un incontro scientifico alzi la mano, lo dica, porti le ragioni per cui questo ha detto e poi si apra un dibattito critico. In tale senso, la ricerca scientifica rappresenta il nucleo in piccolo di una società aperta. Questo è un aspetto che, tra l’altro, è stato colto nel nostro Paese da voci talvolta non molto ascoltate. Nell’età del primo parlamento repubblicano, ci fu chi, non timidamente ma con un certo coraggio, sostenne, per esempio, che la filosofia invece di essere insegnata solo in corsi di laurea appositi, solitamente vincolati alla formazione dei letterati, fosse invece inserita come materia di riferimento in tutti i dipartimenti scientifici. Vi potrà stupire che Labriola fu il principale sostenitore di questo punto di vista e che trovò un appoggio in Benedetto Croce, tanto per ritornare alle figure di tradizione del liberalismo italiano.
Ora, la mia impressione è che questo significa non tanto e non solo una nuova cittadinanza per il nostro Paese, ma una nuova cittadinanza per l’Europa. E qui dobbiamo avere fiducia nella forza delle idee, come forze produttive di miglioramenti, talvolta estremamente significativi. Normalmente chi è abituato alla vulgata marxista ha in mente che è lo sviluppo entro l’economia che fa poi emergere il dibattito delle idee, come una sovrastruttura. Non era questa l’idea di Marx, basterebbe leggere in maniera intelligente le tesi marxiane su Feuerbach per rendersi conto che Marx non pensava una cosa del genere. Ma i marxisti che io chiamo «deboli» nel nostro Paese hanno fatto di questa connessione economia-cultura un dogma fisso, salvo che negli ultimi anni di crisi dei marxisti. Per esempio, di quei marxisti che, da eredi deboli di Karl Marx, si sono tramutati in eredi deboli di Martin Heidegger, e che adesso ci ammanniscono la ricetta heideggeriana in tutte le possibili salse.
Quello che diventa curioso, a mio parere, è che questo tipo di resa degli intellettuali va di pari passo con una serie di ritirate da parte degli esponenti della politica. Mi spiace infierire su una persona che mi dicono alquanto disgraziata, tal Pierluigi Bersani, il quale nel 2011 in un libro pubblicato dall’editore Laterza, Per una buona ragione, ci dice qual è, per lui, la buona ragione: «l’Italia è favorita dalla presenza in loco della massima guida cattolica». Uno rimpiange i bei tempi della cattività francese, forse; ma i francesi hanno capito bene che dopo aver costruito una fortezza per tenervi dentro il papa, si sono tenuti la fortezza e ci hanno rimandato il papa.
Uscite come quella citata, di per sé stesse, indicano almeno due cose: primo, disprezzo per l’autodeterminazione dei singoli e, poi, per l’autonomia della ricerca tecnico-scientifica, perché almeno da Galileo sappiamo che la scienza ha bisogno della tecnica come strumento di controllo delle sue teorie; e questo è un punto che rimanderei al Bersani quando dice «per carità, non andate contro il buon senso».
Ritorniamo un attimo a Galileo Galilei. Non era contro il buon senso quando lui difendeva con coraggio i moti della Terra, quello di rotazione e quello di rivoluzione? Non era contro il buon senso anche la parte più coraggiosa e audace della Riforma detta poi protestante? Attenzione, non sto parlando delle riforme istituzionali che hanno poi represso il dissenso, valga per tutti la durezza a Ginevra di Giovanni Calvino. Ma penso, invece, a certe affermazioni dello stesso Lutero quando diceva che non è mai mettendo a rogo qualcuno che lo si confuta; lo confuterete con successo quando avrete argomenti migliori di lui dal punto di vista razionale. Ecco, questo tipo di protestantesimo, che è poi risultato minoritario, che ha avuto differenti articolazioni nella storia dell’Europa, era tipicamente, – chissà se lo capisce Bersani – contro il buon senso. Andate a dire a qualunque persona che può diventare sacerdote di sé stesso, che può mettersi liberamente a spiegare agli altri la scrittura, che questo modo di confrontarsi e di scontrarsi è il modo in cui si pensa di arrivare a una qualche verità.
Andiamo ancora più avanti, con la rivendicazione del diritto di voto, del suffragio. La rivendicazione del suffragio universale è stata una battaglia che è durata per più di un secolo. Pensate semplicemente agli argomenti di buon senso che Bersani dei tempi avrebbero tirato fuori per sottolineare nell’Inghilterra vittoriana la condizione della donna, priva di voto, costretta a starsene in casa, a curare i figli, a diventare, dopo esser stata la vittima del padre o del fratello, quella del marito ed eventualmente dei figli maschi.
Non solo, andiamo a vedere un altro punto che ci sta molto a cuore, come la lotta contro le varie forme di discriminazione razziale. Anche questa è una questione in cui le persone di “buon senso” erano orripilate: «Ma come, dovete pensare che quelli che sono vissuti per generazioni e generazioni sugli alberi possano un domani essere parificati ai cittadini bianchi?», «Poi, ne combinano di tutti i colori, non sanno trattenersi». Quindi anche qui il buon senso avrebbe dovuto bloccare qualunque forma di lotta alla discriminazione razziale. Faccio notare per amore di verità che il razzismo, che da noi viene criticato sui giornali, nel Regno Unito è ormai un reato, per cui uno può essere giustamente imputato.
Ultimo punto, la lotta contro il potere coloniale. Il colonialismo è stato presentato come uno dei modi più intelligenti con cui ci si poteva lanciare in un mercato liberistico (non liberale, per carità) che poteva avere grande successo perché tanto poi c’erano le colonie a cui imporre le cose fatte da noi e fargliele comprare e che per di più forniva condizioni di manodopera e di installazione di strutture industriali a bassissimo presso. Invece, la lotta per l’indipendenza dei popoli coloniali, che noi associamo a grandi figure come Gandhi, per esempio, è stata una lotta che era contro il buon senso. E non sto parlando di una situazione che sembra ormai lontana. Nella nostra Europa, più precisamente in Irlanda, sei contee sono state ristrutturate in modo da diventare uno “stato protestante per protestanti” (definizione usata ai tempi della partizione nel 1921-1922) e questo tipo di colonialismo continua ancora adesso, con quelle restrizioni alla libertà di movimento, di commercio e di lavoro del popolo irlandese delle sei contee che, se la Brexit va avanti, non si profila certo come un problema di facile soluzione.
Volevo concludere con un punto che mi preme molto. Prima ho evocato uno degli scrittori che più ha lottato per la libertà, la libertà anzitutto contro la soggezione delle donne, per l’indipendenza del popolo irlandese, per la liberazione dei neri che erano schiavi in quello che era un esperimento democratico per altri versi molto avanzato (gli Stati Uniti): John Stuart Mill.
Ma, siccome c’è una continuità di storie personali e ideali, mi piace concludere con una battuta che traggo dal libro di Bertrand Russell Autorità e individuo. È uscito al finire degli anni Quaranta, ed è stato pubblicato in italiano (come la maggior parte delle opere di Russell, compreso I principi della matematica) dalla casa editrice Longanesi che ha favorito la diffusione di questo pensatore. Quindi prendo da Autorità e individuo un punto che, secondo me, si applica bene alla nostra situazione attuale in Italia e in Europa: «Poiché il rispetto di sé, in passato, è stato per lo più una caratteristica soltanto della minoranza privilegiata, può essere facilmente sottovalutato da coloro che si trovino in opposizione di fronte a un’oligarchia stabilita che si sia insediata al potere. E quelli che pensano che la voce del popolo sia la voce di Dio possono inferirne che qualunque opinione inconsueta o qualunque gusto peculiare sia quasi una forma di empietà e la si debba considerare come una ribellione colpevole all’autorità legittima del gregge. Questo potrà essere evitato soltanto se alla libertà si darà lo stesso pregio che alla democrazia e se si vorrà capire che una società in cui ciascuno è lo schiavo di tutti è solo di ben poco migliore di quella in cui ciascuno è lo schiavo di un despota. C’è uguaglianza dove tutti sono schiavi, come là dove tutti sono liberi. Questo dimostra che l’uguaglianza da sola non è sufficiente a fare una società buona».
Restiamo dalla parte di Bertrand Russell!
Roma 22 marzo 2019
Una mente lucida e brillante che mancherà all’Italia