Ostaggi liberati: il prezzo amaro della forza e l’ombra della propaganda

di angelo perrone

La liberazione degli ostaggi e la tregua a Gaza sono un raggio di luce dopo mesi di orrore. Tuttavia, non possiamo confondere la gioia con la certezza di una pace sicura. Al contrario, questo traguardo è stato raggiunto a un prezzo etico e umano insostenibile, un esito che evidenzia quanto il percorso verso una pace vera sia in salita, considerando il modo cruento con cui siamo giunti a questo punto e il carattere dei protagonisti.

Questa liberazione è l’epilogo di una strategia che ha imposto la supremazia di Israele attraverso una forza schiacciante. Israele ha dimostrato di essere una potenza temuta, mirando a indebolire sistematicamente i sostenitori e le reti di Hamas – da Hezbollah in Libano all’Iran e al Qatar – e neutralizzando i capi del movimento. Il governo Netanyahu, nel corso di due anni, ha esercitato la forza non solo per reagire all’eccidio del 7 ottobre ma anche per raggiungere l’obiettivo dell’eliminazione fisica dei palestinesi innocenti dai loro territori, distruggendo il sogno di una pace fondata sul principio “due popoli in due Stati”.

Ma il costo di questa spietata dimostrazione di forza è stato tragico e devastante. Il massacro a Gaza, che ha superato la stima di 60.000 vittime, unito all’occupazione violenta e incessante della Cisgiordania, ha generato un profondo e diffuso discredito internazionale. Israele si è ritrovato in una condizione di isolamento globale, vedendo messa in discussione la propria legittimità etica. In modo perverso, l’operazione ha finito per riattizzare l’antisemitismo latente a livello mondiale, deviando l’attenzione dalla sicurezza di Israele alla condanna delle sue azioni.

In questo clima incandescente, le pressioni esterne, come quella di Donald Trump su Benjamin Netanyahu, hanno acuito la consapevolezza che la misura era colma persino agli occhi dei più spregiudicati. Israele, intenzionato a dominare il Medio Oriente con il solo linguaggio del sangue, diventa un fattore di disordine mondiale.

Per intuire il futuro, però, occorre distinguere la natura dello squilibrio percepito dall’amministrazione Trump: si tratta di una preoccupazione etica per l’eccesso di violenza, o di un calcolo opportunistico legato al sistema di affari e interessi geopolitici, così centrale nella visione del leader americano?

Ed è qui che l’amarezza si trasforma in disgusto. Assistiamo impotenti alla riduzione del dramma a uno scenario teatrale, in cui oltre tutto sono assenti proprio loro israeliani e palestinesi. La liberazione degli ostaggi, che dovrebbe essere un momento solenne di riflessione, si trasforma nel rito della celebrazione di Trump, in una drammatica passerella dei potenti della terra.

È profondamente amaro e grottesco vedere che persino i disperati parenti degli ostaggi – accecati dalla gioia comprensibilissima di poter finalmente riabbracciare i propri cari – finiscono per omaggiare figure come Trump. La loro felicità viene cinicamente strumentalizzata in questo circo mediatico che ruba dignità al dolore e alla complessità della crisi, riducendo l’intera tragedia a uno show di potere.

La pace non può e non deve essere questo. Non può emergere da un massacro, né può costruirsi sull’odio o sul cinismo della propaganda. La pace vera non è un evento da celebrare sul palcoscenico della vanità; essa richiede integrità morale, una volontà ferma di allontanarsi dalla logica di pura forza e l’umiltà necessaria per intraprendere la paziente, difficile e onesta diplomazia. Finché prevarrà la logica del dominio e dello spettacolo sulla sofferenza, la speranza di una coesistenza duratura rimarrà drammaticamente calpestata.

 

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