di giovanni vetritto
Certo che sono strani assai questi “neoliberisti”. Non i liberisti, quelli seri: Einaudi, Rossi, i liberoscambisti, gli anticorporativi del secolo scorso.
Quella era gente seria, che era proprio difficile cogliere in contraddizione.
No, sono strani questi qua di oggi, chiamiamoli neoliberisti, ma forse sarebbe meglio dire neoconservatori; che si riempiono la bocca di mercato, alcuni (Dio li perdoni) perfino di liberalismo, ignorando (o fingendo di ignorare) che la radice di questa cultura, essendo di non pochi decenni anteriore alla adozione di forme moderne di produzione, ha fini e valori ben diversi e più generali della pura difesa del mercato; mercato che di quei valori e fini è, fra altri, uno strumento, di certo liberale, ma pur sempre uno strumento (e non un fine).
Infatti, alla faccia della deificazione del mezzo e della sua trasfigurazione in fine, questi pasticcioni finiscono regolarmente per sostenere certi interessi: sempre gli stessi, sempre già per forza loro ben difesi, e non di rado con errori da matita rossa proprio in termini di linguaggio del mercato.
L’ultimo capolavoro è del tal De Nicola, che a nome di una Adam Smith Society mai vista in opera se non nei suoi editoriali e nelle sue comparsate TV, spara a zero da anni su qualunque attività pubblica e in difesa di un “mercato” tanto strano e tutto suo, che solo lui pare saper concepire come Entità trasfigurata e immanente.
Su “La Repubblica” del 7 novembre, il campione di questo inedito “libero mercato” si pronuncia sulla recente sentenza della Corte di Giustizia europea, che ha fatto sommessamente presente che, se in un mercato operano più attori, esentarne alcuni dal dovere fiscale (nel caso, il versamento dell’ICI) per ragioni di natura religiosa è un aiuto di Stato, con conseguente “danno procurato” ai concorrenti, tenuti invece al versamento del balzello fino all’ultimo euro. Non a caso, il ricorrente che ha lamentato il danno subito dalla sleale concorrenza delle scuole cattoliche non è un anticlericale astrattamente mangiapreti, ma una normale scuola montessoriana privata, ma non religiosa, e pertanto massacrata dalla tassa in questione finché dovuta, con conseguente perdita di alunni a beneficio degli esentati delle vicinanze, capaci per questo (e altro) di rette ben più basse.
Il ragionamento che in merito a questa apparentemente pacifica pronuncia il De Nicola sviluppa è a dir poco sorprendente.
L’esordio dell’affondo è netto, lunare: “non si tratta di essere a favore o meno delle scuole confessionali”. Ah no? Ma come? Il presupposto della concorrenza non dovrebbe essere la possibilità di valersi dell’uno o dell’altro dei prodotti sul mercato, in quanto per caratteristiche analoghi fra loro? E qui dove sarebbe l’analogia dell’offerta? Per me (si, perché negarlo) vecchio liberale, la scuola confessionale non è a nessun fine un succedaneo accettabile della scuola pubblica e laica; è addirittura, con il suo indottrinamento assiomatico, un disvalore; dove sta la possibilità di mettere in concorrenza i due beni? E perché dovrei svuotare le mie tasche pagando tasse per consentire a chi produce un bene non sostituibile di avere sconti fiscali? Per un principio di “concorrenza” tra, che so, mele e martelli?
Già, perché? La risposta di De Nicola è di nuovo netta, e di nuovo iperuranica: perché altrimenti “le casse pubbliche avrebbero un aggravio di diversi miliardi l’anno”. Ottimo. Scopriamo dunque che il mercato non è il luogo in cui consentire agli individui di fare scelte tra beni e servizi in condizioni di correttezza e non discriminazione; è il manto ideologico di un diverso fine in sé, che è il contenimento della spesa pubblica. Purché sia, a prescindere da una valutazione dei servizi e dei beni offerti (ricordiamo? “non si tratta di essere a favore o meno…”), a prescindere dalla verifica del rispetto delle minime condizioni di openness, fairness, non discrimination, in assenza delle quali il mercato, semplicemente, non esiste. E quindi nemmeno i liberisti.
La spesa pubblica è dunque il male, il suo aumento va scongiurato a ogni costo, anche di traviare il mercato, di avvantaggiare alcuni (guarda caso ben precisi) interessi, di aiutare uno dei concorrenti a danno degli altri. E il principio della competenza corretta? E il valore dell’iniziativa individuale del padrone della Scuola montessoriana slealmente svantaggiata? Ma dai, cosa volete che contino simili cose agli occhi dei “neoliberisti”, dei nuovi alfieri del “Mercato trasfigurato”, della Mano (Ben) Visibile.
E infatti i conti su cui il De Nicola basa questo suo ragionamento legittimo, ma non certo liberale, e a questo punto nemmeno minimamente liberista, sono a loro volta raccontati con la disinvoltura e l’apparente familiarità con le cose che avrebbe un turlupinatore in un suk mediorientale: “i circa 900 mila alunni che frequentano le paritarie costano allo Stato 550 euro ciascuno”, ci spiega il de Nicola, citando quasi di sfuggita, ma senza quantificarne gli ulteriori “oneri” in barba al limite costituzionale dell’art. 33, dozzine di leggi regionali che finanziano ulteriormente la scuola confessionale; mentre “la spesa pro capite degli scolari degli istituti pubblici è di seimila euro”.
Il linguaggio è insinuante e distorsivo: questi reprobi mangiapreti ci costano ciascuno 12 volte un timorato scolaro di Dio? Orsù, chiudiamo ulteriori scuole pubbliche, apriamo alla sana concorrenza (!) tra indottrinamento e laicità, non si salva nemmeno mezzo principio liberista, ma dai che ci conviene!
Ma uno studioso attento di politica della lesina perché non spiega come mai il costo pro capite del buon scolaro cattolico è di tanto più basso di quello del cittadino che frequenta la scuola pubblica?
Semplice: perché lo Stato, in un Paese con quasi l’80% del territorio fatto di montagna e collina, con circa 6.000 Comuni su 8.000 minuscoli e mal serviti, ormai quasi disamministrati, deve aprire una scuola in ogni dove, provvedere al personale, alle strutture, dovunque, e in special modo nei luoghi meno accessibili del Paese, le tanto abbandonate “aree interne”. Il costo medio per scolaro è, in queste condizioni, un elemento del tutto fuorviante: infatti in nessuno (ripetiamocelo: nessuno) di questi luoghi la Chiesa apre scuole private, men che mai a 500 euro l’anno a bambino: le apre nel comodo e servito centro delle città grandi, medie e a volte piccole del Paese, assistite da servizi che, secondo il Nostro, ha diritto di non contribuire a pagare. Bene, bravo, bis: su quale trattato di liberalismo, o anche solo di liberismo, pure oltranzista, ha studiato il De Nicola?
La verità è che l’unico parametro minimamente considerabile in un ragionamento serio non è il costo medio, ma il costo marginale: ovvero il costo per l’aggiunta di quei 900 mila alunni, uno per uno, alle scuole già finanziate a costo di 6.000 euro medi l’anno per le ragioni suddette. Costo tendenzialmente basso e in non pochi casi pari a zero, allo stato attuale della formazione delle classi e della popolazione effettiva delle aule. Costo marginale, non costo medio: il “neoliberismo” neocon è compatibile con il sillabare decentemente tre nozioni indispensabili a passare un esamino di scienza delle finanze al secondo anno di giurisprudenza? Secondo il Nostro, parrebbe di no.
Dunque, nessuna scelta democratica di “beni meritori”, come la laicità delle istituzioni, specie di quelle formative delle nuove generazioni; si sa, la democrazia costa, torniamo al Medioevo così risparmiamo. E poi, in questa società finalmente libera dal cappio oppressivo della spesa pubblica, via remore moderniste su correttezza della concorrenza e principi di finanza pubblica; guarda caso soprattutto davanti non al privato, all’individuo dei liberali (e dei liberisti), ma davanti a certi ben precisi Padroni. Guarda caso sempre gli stessi.
Ma si sa, davanti alla Trasfigurazione non c’è ragionamento che tenga. Nemmeno liberale. Nemmeno liberista.