di norberto bobbio
PRESENTAZIONE DI PIETRO POLITO
Pubblicato sul sito del Centro studi Piero Gobetti il 01 Agosto 2020.
Non so se vi ricordate dove eravate la mattina del 2 agosto 1980. Io lo ricordo perfettamente. Il 2 agosto 1980, 24 anni, ero a Oliveri, in provincia di Messina, la prima e unica vacanza in campeggio libero, la tenda vicina al mare, accanto alla nostra, quella di due altri giovani che ricordo bene ma non ho più rivisto, forse anche loro venivano da Torino.
Nel primo pomeriggio li abbiamo visti arrivare dal paese, il capo chino, scossi, turbati, angosciati, il pianto trattenuto. Da loro abbiamo appreso la notizia che a Bologna era scoppiata una bomba. Seduti accanto alle due tende a lungo abbiamo parlato… parlato… parlato…
Quella mattina, ore 10 e 25, stazione di Bologna, un’esplosione assordante, una strage: 89 morti, 200 feriti. La leggerezza dell’estate inghiottita in un boato, perduta per sempre. Da allora non associo più il mese di agosto al riposo, alla vacanza, alla spensieratezza, semmai si può stare senza pensieri.
Da una cartella di ritagli sulla strage ne estraggo uno: il bell’articolo di Elfi Reiter, La mattina che spezzò l’Italia: “il manifesto”, 28 luglio 2012. Vi si legge: “Un treno sta per entrare in stazione, dei passeggeri al finestrino aperto, una ragazza intreccia i lunghi capelli: è estate, si respira aria di vacanza, molti sono giovani e spensierati. Finché lo schermo si fa buio”.
A distanza di 40 anni, proponiamo di rileggere o leggere per la prima volta per i più giovani la prefazione di Norberto Bobbio al libro La strage. L’atto di accusa dei giudici di Bologna, a cura di Giuseppe De Lutiis, Roma, Editori Riuniti, 1986. La tesi di Bobbio è che a Bologna, il 2 agosto 1980, è stato compiuto il delitto “il più efferato”, “moralmente il più ripugnate”, “il più brutale”, una strage indiscriminata “tanto più terrificante quanto più appare ingiustificata, gratuita, come tale imprevedibile e irreparabile” .
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Nell’anno in cui si è celebrato il quarantesimo anniversario della nostra repubblica, sarebbe imperdonabile dimenticare o ignorare l’altra faccia del potere, quella che non si vede e della quale non si parla nelle cerimonie ufficiali (stranamente neppure nella maggior parte degli scritti dei politologi). NelL’universo del potere invisibile sono nati tutti gli episodi di violenza politica che hanno sconvolto il paese, ivi compreso il più efferato, la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
Quando nel 1979 scrissi un articolo su La democrazia e il potere invisibile, la strage di Bologna non era ancora avvenuta. Ma mi era parso naturale osservare che dalla strage di Piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre 1969, in poi, era cominciata la degenerazione del nostro sistema politico per opera di un potere sotterraneo insidioso e senza scrupoli di cui non si conoscevano né la natura né gli scopi, ed avanzare il sospetto che il segreto di Stato fosse servito a proteggere il segreto dell’anti-Stato. La strage di Bologna, che supererà per numero di vittime tutte le stragi precedenti e quelle successive, avrebbe confermato quella osservazione. I risultati sinora raggiunti dopo sei anni d’indagini, se pur non definitivi, stanno trasformando quel sospetto in certezza.
Nonostante il meritevole impegno di magistrati e di giornalisti nella ricerca della verità, nonostante gl’innumerevoli scritti di storici, sociologi e studiosi di politica, convegni, seminari e pubblici dibattiti, sul terrorismo rosso e nero, si ha l’impressione che sinora non siano state generalmente percepite e comprese la gravità, l’estensione, la frequenza dei ricorrenti tentativi di sovvertimento delle nostre libere istituzioni, tanto più preoccupanti in quanto nessun altro paese democratico ha subito, sofferto, tollerato, e, quel che è peggio, protetto in egual misura, in tutti questi anni, una paragonabile situazione permanente di violenza eversiva, indirizzata insolentemente e spregiudicatamente all’instaurazione di un ordinamento autoritario.
Anche ritenendo poco credibili le notizie date dai familiari dell’on. Moro sulla necessità in cui il presidente del consiglio di una forte coalizione di governo si sarebbe trovato di nascondersi di tanto in tanto per timore di un colpo di Stato, non è il caso di domandarsi se tentativi così gravi di sovvertimento siano mai avvenuti nella storia dello Stato italiano prima del fascismo? Se è vero che il colpo di Stato è il modo abituale con cui avviene il passaggio di poteri negli Stati autoritari, – e ne è una riprova il fatto che l’unico colpo di Stato in Italia sia avvenuto per mettere fine al fascismo, nel passaggio di poteri da Mussolini a Badoglio, – che cosa concludere se non che quello che è successo durante i primi quarant’anni della repubblica democratica non solo non è accaduto negli altri paesi democratici, com’è generalmente riconosciuto, ma anche in nessun altro periodo della storia del nostro Stato unitario prima del fascismo?
Inoltre troppo spesso si dimentica che in una storia dello «stragismo» (le parole nuove non nascono mai a capriccio) bisogna tener conto non solo delle stragi realmente avvenute ma anche di quelle tentate e fallite, o per inettitudine degli esecutori o per una fortunata accidentalità o per l’intervento tempestivo degli apparati preposti all’ordine pubblico. Tra queste basti ricordare la tentata strage di Piazza Indipendenza a Roma contro la sede del Consiglio superiore della magistratura in un giorno, il 20 maggio 1979, in cui era previsto un insolito affollamento in occasione di una manifestazione nazionale degli Alpini. Ma se ne potrebbero citare molte altre. Il diritto ha le sue buone ragioni per distinguere il reato tentato da quello consumato. La storia ha spesso le sue buone ragioni per non distinguerli, a maggior ragione la storia delle congiure. Anche la morale non distingue: una strage d’innocenti non è meno infame per il solo fatto che la bomba non sia scoppiata.
Di tutte le forme di violenza politica la strage indiscriminata è certamente quella moralmente più ripugnante. Sotto il nome di terrorismo si comprendono e si confondono forme molto diverse di violenza politica, tanto diverse che mal sopportano di essere designate con lo stesso nome. Mentre la strage mira a colpire un insieme di persone, l’attentato è diretto contro una persona o anche una cosa bene individuata che può essere un personaggio altamente rappresentativo del potere oppure, come si dice oggi, un «simbolo» del potere, un giudice, un poliziotto, un agente di custodia, e anche la sede di un partito, di un organo dello Stato, come il parlamento, o di una corte di giustizia; nel terrorismo internazionale, un’ambasciata. Ma anche la strage può non essere indiscriminata, mirare a colpire il nemico, non una folla qualunque: la strage di Portella della Ginestra, compiuta dal bandito Giuliano durante un comizio del primo maggio, è una strage mirata, a differenza delle stragi compiute dall’eversione di destra, a cominciare da quella di Piazza Fontana per finire (almeno sino a questo momento) a quella del treno di Val di Sambro il 23 dicembre 1984. Risulta dagli atti processuali che gli stessi autori discutevano fra loro se ricorrere ad attentati «selettivi» o «indiscriminati», ma poi il criterio della selettività si estese sino a far dire al tenente colonnello Amos Spiazzi, uno dei congiurati della Rosa dei Venti, che la strage di Bologna poteva essere fatta rientrare fra quelle selettive, perché non veniva colpita una stazione qualunque ma la stazione di una città tradizionalmente comunista e come tale bersaglio privilegiato della destra. Così, allargato il criterio, la distinzione fra l’uno e l’altro tipo di strage finisce per diventare sempre più labile: qualsiasi punto della città di Bologna, e perché no? dell’Emilia, sarebbe oggetto di una strage selettiva.
Nella strage indiscriminata il terrorismo si manifesta nella sua forma più brutale, e apparentemente insensata. Uno dei capi di Ordine Nuovo si dichiarava fautore di una «teoria del terrorismo puro». Il terrorismo puro è la pratica del terrore con lo scopo principale, essenzialmente negativo, di ascendenza nichilistica, di suscitare terrore. Le conseguenze positive, se ci saranno, sono uno scopo secondario. Conta l’atto di per se stesso, non contano né il movente né il fine. Poiché lo scopo è il terrore, questo scopo si realizza nell’atto stesso: la strage infatti è tanto più terrificante quanto più appare ingiustificata, gratuita, come tale anche imprevedibil e irreparabile, al pari di un terremoto o dell’eruzione di un vulcano. A differenza delle Brigate Rosse, gli autori di stragi indiscriminate tendono a non dare giustificazioni o fare dichiarazioni, né a rivelare la propria identità. Se il terrore è il fine primario, un atto è tanto più terrorizzante quanto più è circondato da un mistero impenetrabile.
Soggettivamente, o esistenzialmente, la pratica dell’assassinio di massa, di una massa senza nome e senza volto, viene vissuta anch’essa come un atto che si giustifica da sé, in quanto è una sfida al senso comune, una trasgressione delle regole sociali generalmente accettate, un insulto alla morale del gregge, un’azione eccessiva, eccezionale, soverchiante, se pure nella dimensione del male (che ha la stessa forza attrattiva del bene). L’eccesso, qualunque sia la sua direzione, è di per se stesso un segno e una prova di elezione. Coloro che per la gente comune sono degli innocenti, per l’eletto sono dei colpevoli per il solo fatto di esistere come massa, come l’infinita e opprimente turba di coloro che Nietzsche, il maestro, non importa se male interpretato come alcuni sostengono, chiamava i «malriusciti». In principio è l’azione, che era poi un vecchio motto dello squadrismo fascista. La rivoluzione, come si legge nei documenti del Movimento, non si teorizza ma si vive.
Oggettivamente, i fini ulteriori., che seguono ma possono anche non seguire, sono molto diversi, e persino non del tutto chiari nell’animo degli stessi attori. Sembra ormai assodato che, pur nella continuità della strategia del terrore e nella sostanziale identità di alcuni capi storici, gli obiettivi della nuova generazione di terroristi non siano più quelli della prima, anzi si siano addirittura capovolti. All’origine il terrorismo nero si poteva distinguere da quello rosso, perché era golpista, inserito nelle istituzioni e bisognoso di esse, mentre l’altro era radicalmente anti-istituzionale, faceva appello alla mobilitazione sociale, contava sulla insurrezione dal basso e non sull’imposizione dall’alto di un «ordine nuovo». Da quando all’interno dei gruppi della nuova destra eversiva, quella identificabile nei NAR, si è cominciato a parlare di «spontaneismo armato», che sembra ricalcare modelli della sinistra rivoluzionaria, il terrorismo nero è sembrato volersi emancipare da ogni preciso riferimento al nuovo ordine da costituire e lottare anch’esso, com’è stato detto, non più dentro lo Stato ma contro lo Stato, anche se probabilmente è diventato, questa volta senza averne coscienza, uno strumento degli stessi disegni sovversivi sempre perseguiti da coloro che agiscono nel fondo oscuro degli apparati statali. Non si dimentichi che la prassi dell’inserimento nelle istituzioni è stata svolta con successo negli stessi anni da una lega segreta come la P2 il cui capo, Licio Gelli, ha continuato a mantenere rapporti sia coi servizi segreti, sia direttamente e indirettamente con personaggi di movimenti eversivi.
Prevale comunque sempre il fine negativo della «disgregazione», o della disarticolazione o dello sgretolamento o frantumazione, della compagine esistente su quello positivo della provocazione di un’azione repressiva da parte dello Stato, che sia tale da facilitare l’instaurazione di un nuovo regime, sempre vagamente percepito, non mai chiaramente disegnato (che, peraltro, apparendo sempre più lontano, cessa dall’essere un fine immediato). Fine immediato e positivo, se mai, è, oltre quello esterno della dissoluzione dell’ordine costituito, quello puramente interno al gruppo della riaggregazione delle membra sparse e disperse e in via di estinzione del movimento: in questo caso l’azione esemplare deve servire come la campana a stormo (o a morto) per riunire i fedeli in caso di pericolo. Viene attribuito a uno dei rappresentanti più autentici, e tragici, della nuova generazione l’intento di «commettere fatti sempre più rilevanti» allo scopo di «far venir fuori gli elementi più preparati e disponibili alla lotta armata». Anche da questo punto di vista la differenza fra l’attentato e la strage è evidente. Il fine dell’attentato è prima di tutto punitivo e vendicativo: quando a Roma il 10 luglio 1976 viene ucciso il giudice Vittorio Occorsio, in un volantino si legge: «Anche i boia muoiono». Quando il 23 giugno 1980 viene ucciso il giudice Mario Amato, l’omicidio è rivendicato con le parole: «La vendetta è sacra». L’idea della punizione esemplare o della vendetta è totalmente estranea alla strage indiscriminata: la strage non conclude ma anticipa, non fa i conti col passato ma lancia un messaggio sinistro e minaccioso verso il futuro.
Converrà aggiungere che la difficoltà di definire gli obiettivi di questi gruppi estremistici dipende anche dal fatto che chi ha la cattiva abitudine (una deformazione professionale) di interpretare le azioni umane sulla base delle categorie comuni (di origine weberiana) della razionalità secondo lo scopo e della razionalità secondo il valore stenta a fare rientrare gli atti di strage indiscriminata nell’una o nell’altra, e tende a disfarsene con una certa insofferenza considerandole un prodotto non ulteriormente esplicabile di irrazionalismo. Posto che una strage come quella della stazione di Bologna abbia intenti dichiarati, non risulta forse alla prova dei fatti, ossia delle conseguenze, l’enorme sproporzione fra il mezzo usato e lo scopo, anche indipendentemente, da qualsiasi giudizio di ordine morale? Il ripetersi di quello stesso tipo di azione quasi a scadenza fissa non è la miglior prova che lo scopo non è stato raggiunto? Quante volte dovrà essere ripetuto affinché si compia per lo meno il fine minimo, meramente negativo, della disgregazione del sistema? Ancor più difficile il giudizio in base al criterio della razionalità secondo il valore, giacché, intendendosi per «valore» un bene di cui si desidera il possesso, sembra contrario al senso comune che si possa desiderare il negativo anziché il positivo, si contempli la bellezza della morte, non solo quella degli altri ma anche la propria (non a caso si è parlato di «misticismo della morte»), anziché la bellezza della vita, e l’orrore del sangue ceda dinnanzi al delirio di potenza.
La tendenza di chi esercita una qualsiasi forma di potere a non lasciarsi vedere è irresistibile. Elias Canetti ha scritto in forma lapidaria: «Il segreto sta nel nucleo più interno del potere». Irresistibile, perché il potente sa che è tanto più sicuro di raggiungere i propri scopi quanto più i luoghi in cui si muove sono inaccessibili e i suoi movimenti sono impercettibili. Complessa e sinora poco studiata è la fenomenologia del potere invisibile. Vari sono i modi con cui si ottiene la invisibilità, ma due sono i principali, strettamente intrecciati fra loro: nascondersi e nascondere (coprirsi o coprire). Nascondersi: non mostrarsi mai in pubblico oppure mostrarsi con una maschera che renda il proprio viso irriconoscibile. Nascondere: usare sistematicamente la menzogna per ostacolare la conoscenza dell’azione compiuta o da compiere. Intrecciati strettamente fra loro, perché il primo favorisce l’uso del secondo, e il secondo crea le migliori condizioni per assicurare il successo del primo.
Che ogni forma di terrorismo eversivo non possa svolgersi se non nelle modalità del potere occulto, è evidente. Il gruppo terroristico ha e non può non avere tutti i caratteri della setta segreta: esso si costituisce nel momento in cui, con espressione che ci è diventata purtroppo familiare, un insieme di militanti di un movimento estremistico, quando si rende conto di non potere perseguire il proprio obiettivo con un’azione pubblica, perché sarebbe considerata illecita, decide di «scendere in clandestinità». Il che significa, da un lato, non riunirsi più in luogo pubblico, non esprimere la propria opinione servendosi dei mezzi di comunicazione protetti ma nello stesso tempo limitati dalle leggi stabilite dai pubblici poteri, in genere rifiutare tutti i vantaggi ma insieme anche gli oneri che derivano dall’esercizio dei diritti di libertà caratteristici di uno Stato democratico di diritto; dall’altro lato, nascondersi dietro la maschera della falsa identità, non essere più in pubblico quello che si è in privato, usare tutti quei processi di «mimetizzazione» che debbono consentire, giacché non è possibile cancellarsi del tutto, di non farsi identificare.
Meno evidente, e per quel che riguarda la sanità delle nostre istituzioni democratiche ben più allarmante, il continuato e pervicace, ormai per tante prove irrefutabile, esercizio dell’altra modalità del potere occulto, che consiste nell’uso sistematico dell’occultamento attraverso il mendacio, e tutte le forme di simulazione e dissimulazione, con cui chi avrebbe il dovere di scoprire la verità contribuisce a coprirla. Così, accanto alle forme di nascondimento oggettivo, come il luogo segreto, la carta d’identità falsa, la scrittura in codice, vi è, non meno pericoloso e in un certo senso ancor più insidioso, perché trae in inganno, svia, confonde, il nascondimento che dipende dall’uso perverso della comunicazione, sia essa linguistica o mediante segni, segnali e simboli, di cui ci si serve non per informare ma per disinformare, non per aiutare la ricerca della verità ma per ostacolarla, non per fornire dati certi ma per contraffarli e per fare loro significare il contrario di quel che significano in realtà.
Quest’opera di occultamento è stata compiuta sistematicamente e ripetutamente nel nostro paese da settori dei servizi segreti che appartengono non all’anti-Stato ma allo Stato, e il cui compito statutario è quello non già di favorire la sovversione ma di offrire i mezzi di cui solo un’attività segreta può disporre per combatterla. L’ostacolo alla ricerca della verità può avvenire in vari modi, che appaiono tutti quanti praticati, compresi quelli più perfidi, da questo o quel settore dei servizi segreti nei processi contro l’eversione di destra (anche se qualche sospetto, per lo meno di inerzia, sia stato avanzato anche per quel che riguarda l’eversione di sinistra): la mancata trasmissione d’informazioni, l’informazione non tempestiva, ad arte ritardata, la disinformazione, la notizia manipolata, e addirittura l’informazione intenzionalmente falsa o falsificata, o, come si dice in gergo, il «depistaggio». Il caso più scandaloso e moralmente abbietto è rappresentato da tutte quelle azioni che mirano consapevolmente e con un disegno politico preciso a spostare le indagini dall’uno all’altro gruppo eversivo per salvare i colpevoli e far ricadere la colpa su innocenti politicamente invisi. Si tenga anche presente che sinora questo sviamento è avvenuto soltanto in una direzione: mentre vi sono prove che in alcuni casi sia stato fatto il tentativo di attribuire a gruppi di sinistra attentati compiuti dalla destra, non è mai accaduto il contrario.
Vi sono altri due problemi che la scoperta del potere invisibile solleva e dovrebbero costituire un oggetto di studio più di quel che sia stato fatto sinora, e per i quali ciò che sinora si è appreso dall’indagine giudiziaria offre un materiale di riflessione importantissimo. A porre il primo problema si è indotti da quel che è stato detto sulla collaborazione fra movimenti eversivi e servizi segreti. Nel fondo oscuro, difficilmente penetrabile, dove si muovono gli attori delle varie forme di potere occulto, accade spesso Una compenetrazione fra l’una e l’altra, richiesta dalla necessità di un aiuto reciproco. Gli estremi si toccano: non solo i movimenti dell’antiStato con gli apparati segreti dello Stato, ma anche i movimenti politici clandestini coi gruppi non meno clandestini della criminalità organizzata, come mafia e camorra. La nostra storia di questi ultimi anni è ricca di episodi che ci stanno rivelando a poco a poco quale intrico di canali sotterranei, che pur muovendo da diverse fonti finiscono sempre per trovare una via di comunicazione fra loro, mostri la mappa, non ancora del tutto esplorata e non perfettamente disegnata, del sottosuolo. Paradossalmente tutto diventa lecito nell’universo dell’illecito. Non è difficile del resto capire come a un certo punto possa avvenire una identificazione fra criminalità politica e criminalità comune là dove gli stessi attori dell’eversione politica compiono atti tipici della delinquenza comune, come furti e rapine, o per sfida o per bisogno: l’assalto a una banca viene infatti giustificato o come un atto di critica radicale del sistema, oppure come mezzo di autofinanziamento. La sovrapposizione fra i due obiettivi arriva sino al punto da suggerire all’interno dello stesso movimento la distinzione fra «fascisti bucolici», che considerano come scelta rivoluzionaria utilizzare il provento delle rapine per acquistare case e terreni allo scopo di creare una famiglia ed educare i figli alla futura rivoluzione, e «fascisti mercenari», che considerano la rapina rivoluzionaria in se stessa, anche se il frutto di essa servirà soltanto all’arricchimento individuale.
Riconosciute la molteplicità e la confluenza delle correnti sotterranee, il politologo, trasformatosi in speleologo, comincia ad accorgersi che le diverse correnti si trovano a diverso livello di profondità. E qui si affaccia il secondo problema, tutt’altro che risolto. Nell’universo del potere invisibile i gradi d’invisibilità sono diversi. Se l’invisibilità è una condizione immancabile dell’esercizio del potere, se ne deve trarre la conseguenza che il potere è tanto più grande quanto più, per la sua maggiore profondità, è insondabile. Non per nulla l’onnipotente è colui che nessun occhio umano ha potuto e potrà vedere, almeno in questo mondo. In ogni discussione sul potere occulto si parla del resto comunemente di primo, secondo, terzo livello, ed è diffusa la convinzione che coloro che vengono più facilmente scoperti e processati proprio perché sono più visibili rappresentino anche il livello meno profondo: i gregari, gli esecutori materiali, la cosiddetta «manovalanza», i subalterni, che vengono destinati a compiere azioni alla luce del sole, e quindi tanto più clamorose quanto più visibili, aventi spesso capi diversi da quelli proclamati. Al di sopra vi sono i mandanti; i capi del movimento, coloro che non sempre partecipano all’azione pur essendone gl’ispiratori, e che si potrebbero chiamare i padroni dell’ideologia. La differenza fra i primi e i secondi non è sempre netta, anche perché in una dottrina che pregia e stimola l’azione diretta, pensiero e azione sono mal distinguibili. Ma si arriva sempre al vertice intoccabile dell’ideologo principe, che per la maggior parte dei movimenti di estrema destra in Italia è rimasto, nonostante il passare delle generazioni, Julius Evola, al quale non è richiesto l’impegno dell’azione.
Se tra ispiratori ed esecutori la differenza non è sempre netta, nettissima è invece fra l’azione terroristica propriamente detta e la macchinazione. Colui che compie l’azione esemplare deve venire allo scoperto per lo meno nel momento dell’azione, se pure, ma non necessariamente, col volto mascherato. Colui che trama invece deve stare sempre nell’ombra, non deve mai scoprirsi, e del resto una trama è già di per se stessa meno percepibile dell’azione. Non ha bisogno di mettersi la maschera perché non ha volto. Può essere dappertutto senza essere in nessun luogo. Sembra che oggi non si possano più escludere rapporti fra la sfera dell’eversione di destra e la loggia massonica P2. Qualora questi rapporti fossero, una volta per sempre e in maniera definitiva, certificati, questa organizzazione immersa nell’ombra: composta da generali, agenti dei servizi segreti, uomini politici, alti magistrati, costituirebbe rispetto agli esecutori e ai mandanti ideologi un terzo livello.
Terzo ed ultimo? Resta il segreto più fitto: quello dei servizi che sono per natura segreti. Se si riflette sulla loro inafferrabilità, sulla loro continua riproduzione nonostante il mutamento delle sigle e degli uomini, può nascere il sospetto che sia proprio questo lo strato più profondo, il vero nucleo duro, indistruttibile, del potere occulto. Esso è infatti l’unico che sia insieme eccezionale e necessario. La necessità non ha legge. È sciolta da ogni legge, perché è legge a se stessa.
Rimane una domanda, la più inquietante. Perché in Italia? Anzi, perché solo in Italia? Di fatto negli altri paesi democratici dell’Occidente sono stati compiuti e si compiono tuttora atti di terrorismo, ma il terrorismo irlandese in Gran Bretagna, quello basco in Spagna, sono opera di minoranze religiose o etniche, quello dell’OAS in Francia, da cui trasse qualche ispirazione anche la destra eversiva italiana, nacque nella situazione eccezionale della guerra di Algeria e sparì a guerra finita. Il terrorismo che insanguina attualmente i paesi dell’Occidente, ha ragioni, matrici, centrali, internazionali. Il terrorismo nostrano nasce invece da contrasti ideologici interni allo schieramento politico italiano, e in nessun altro paese un terrorismo di questa natura ha avuto la durata e l’espansione che ha avuto in Italia. Quanto all’eversione nera, che è quella che qui c’interessa, se ne potrebbe dare una spiegazione considerandola come una coda velenosa di un regime come quello fascista che avendo governato il paese per vent’anni non può non aver lasciato un’eredità di sentimenti e risentimenti non facilmente estinguibili. Ma in Germania, dove pure il nazismo conquistò il potere e gli animi in modo ben più radicale che il fascismo in Italia, non è accaduto nulla di paragonabile allo «stragismo» italiano, alleato a periodici progetti di sovvertimento dell’ordine democratico. L’eversione nera è un fenomeno tipicamente italiano. Bisogna prenderne atto senza patriottiche edulcorazioni, con franca determinazione, e con l’intenzione seria di comprenderlo sino in fondo per non lasciarsi andare alla pericolosa illusione della sua estinzione.
L’ipotesi più probabile, confortata da ripetute dichiarazioni di coloro che direttamente o indirettamente hanno concorso ad alimentare i gruppi della destra reazionaria, ne hanno guidato, protetto e tentato di attuare i progetti, è che la persistenza della strategia sovversiva e l’accanimento che non ha conosciuto tregua con cui è stata perseguita, dipendano dal fatto che l’Italia è il paese d’Occidente in cui esiste il più forte partito comunista, l’unico partito comunista in grado se non di conquistare il potere, di condizionarlo, e di diventare partito di governo. L’evento che viene di solito considerato il punto di partenza della strategia della tensione è il convegno a Roma all’Hotel Parco dei Principi che si svolse dal 3 al 5 maggio 1965, appena otto mesi dopo il fallito tentativo di colpo di Stato del giugno e luglio 1964, per iniziativa dell’Istituto Alberto Pollio, finanziato dal Sifar. Il convegno fu promosso in seguito alla constatazione della «estensione e globalità» delle iniziative dei comunisti in tutto il mondo e col proposito di «promuovere lo studio critico della guerra rivoluzionaria, e cioè dell’offensiva planetaria del comunismo» (La guerra rivoluzionaria è il titolo degli Atti del Convegno), allo scopo di «cercare i mezzi più idonei per un’efficace difesa». Alla guerra rivoluzionaria si contrappone la guerra controrivoluzionaria, la quale «non si pone problemi di natura morale» e deve essere affidata a «gruppi permanenti che diventino soldati clandestini e non esitino ad accettare la lotta nelle condizioni meno ortodosse e con la necessaria spregiudicatezza». In questa dichiarazione, stavo per dire «professione di fede», è anche rappresentato uno dei motivi o dei miti della vecchia e della nuova destra: quello del legionario, del «soldato politico».
L’anticomunismo totale è il tema dominante della reazione di destra in tutti i paesi del mondo. Non deve sorprendere che esso sia più radicato e insieme anche più aggressivo nel paese in cui il partito comunista è il più forte partito di opposizione, ha continuato a crescere per anni la propria forza elettorale, a differenza di quel che è accaduto in Francia e in Spagna. Da parte di coloro che in questi anni si sono occupati del problema si è cercato di mostrare il rapporto fra i vari episodi di violenza che hanno avuto per protagonisti i terroristi neri e le crisi periodiche interne. Anche senza credere a un rapporto meccanico fra gli uni e le altre, sembra difficile proporre allo stato degli atti una spiegazione diversa della dimensione assolutamente eccezionale della reazione golpista e terroristica in Italia, e degli appoggi che essa ha trovato nei servizi segreti, certamente non solo italiani.
Resta a domandarsi come mai la nostra non robusta democrazia abbia nonostante tutto resistito, non dico superato la prova perché è bene non farsi troppe illusioni. Ha resistito. Non gode ottima salute, specie se si guarda al distacco tra partiti e cittadini, un distacco peraltro che è sempre esistito (si pensi al fenomeno del qualunquismo subito dopo la guerra), e sempre ci sarà in un regime come quello democratico in cui fra le varie libertà costituzionalmente garantite c’è anche quella di parlar male dei governanti, anche di quelli che col proprio voto si contribuisce ad eleggere. Ma non è moribonda. Ha resistito in parte per proprio merito e in parte, bisogna francamente riconoscerlo, per demerito di tutti coloro che hanno cercato di affossarla. Di fatto all’efferatezza dell’azione non ha mai corrisposto un disegno politico preciso e coerente. Gl’insuccessi politici della reazione di destra sono dovuti in parte alla mancanza di un consenso diffuso nella società civile, in gran parte anche alla mancanza di un’ideologia definita, specie nell’ultima generazione, alla inconsistenza del progetto finale, al velleitarismo dei capi, alla rozzezza della strategia adottata.
Che la democrazia non sia moribonda, ci può consolare, ma non ci esime dall’esprimere la nostra mortificazione e la nostra vergogna per tutto il sangue innocente versato, per la viltà con cui gli eccidi sono stati compiuti «senza preclusioni morali», come si legge in un documento, per il miscuglio di fanatismo e di cinismo con cui sono stati proclamati e giustificati, per l’impudenza con cui sono stati coperti da chi aveva il dovere giuridico oltre che morale di scoprirli, e, perché no?, per l’impotenza, l’inefficienza, l’inettitudine, di cui hanno dato prova, insipientemente vogliamo credere per carità di patria, tutti i governi che si sono succeduti in questi anni.
La sentenza-ordinanza, che ora viene presentata al pubblico italiano, composta con tanto rigore e passione civile da giudici coraggiosi e intemerati, nonostante l’accertamento della verità, come si legge nelle prime righe, sia stata «ostacolata in ogni modo per le menzogne, gl’inquinamenti e le congiure d’ogni genere», ci lascia sperare che l’ora della verità sia vicina.
Ottobre 1986 Norberto Bobbio