Stop al ponte, attaccare l’arbitro per non contare i falli

di angelo perrone

La frenata al progetto del ponte sullo stretto, imposta dal mancato visto di legittimità della Corte dei Conti, ha provocato l’innalzamento di un muro retorico: l’accusa di “invasione di campo”. Anziché affrontare i rilievi contabili, dimostrandone l’infondatezza, il controllato accusa il controllore, pretendendo così di rovesciare l’onere della prova. Una trappola.

Di fronte a un atto di controllo, spetterebbe a chi accusa di invasione dimostrare che l’organo giudiziario ha agito ultra vires. Il copione: la politica si esime dal dimostrare l’irregolarità dell’arbitro e vorrebbe obbligare la magistratura a giustificare la propria funzione, a dar conto di sé e della legittimità del proprio comportamento. Il punto è questo: se la Corte ha invaso il campo, chi accusa indichi la norma o il confine costituzionale violati. Solo così si uscirebbe dalla retorica e si entrerebbe nel diritto. Fino ad allora, l’accusa resta un mero pretesto.

Quando i giudici contabili sollevano obiezioni, non stanno esercitando un potere di indirizzo politico, non contestano nel merito le scelte politiche; stanno semplicemente adempiendo al loro dovere costituzionale: essere guardiani delle casse pubbliche, cioè del nostro denaro. La loro missione è verificare che i provvedimenti siano legali e conformi alle normative, null’altro. Si guarda solo alla chiarezza delle coperture finanziarie e alla regolarità delle procedure adottate. Dato che non si contestano le ragioni politiche, è persino controproducente formulare altre accuse. Basterebbe così poco, correggere gli errori o chiarire, per andare avanti e realizzare i propri scopi.

Qui si innesta la seconda trappola retorica. Questa vicenda diventa lo spunto per sostenere che la soluzione stia in una riforma della giustizia (che è volta a separare le carriere tra pubblici ministeri e giudici). Emerge chiaramente la strumentalità: la separazione delle carriere, obiettivo che impegna la politica, riguarda la magistratura ordinaria (quella penale e civile), non la magistratura contabile (la Corte dei Conti).

Servirsi del “no” contabile, un rilievo squisitamente amministrativo-finanziario, per supportare una riforma costituzionale che attiene ad altri ambiti del diritto, indica la volontà di strumentalizzare ogni conflitto istituzionale. L’attacco non è alla sentenza o al visto, ma alla funzione. Il tentativo di confondere le acque è palese: si cerca di usare il dissenso sul bilancio come benzina per una riforma che non c’entra nulla con i vizi del ponte.

La politica sa benissimo che il dissenso fondato va trattato con la correzione degli atti, non con i comunicati stampa. Il fatto che, invece di sanare i rilievi o di chiarire, si preferisca gridare all’invasione, è la prova della strumentalità dell’accusa. L’attacco all’arbitro non è un dibattito, ma una manovra diversiva.

E allora sorge la domanda: se l’unico modo per far avanzare i progetti di sviluppo è pretendere che gli organi di controllo omettano ogni osservazione, siamo sicuri che non sia la politica a voler giocare senza arbitro?

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