di riccardo mastrorillo
Questa mattina, nel corso della discussione sul disegno di legge di Riforma Costituzionale, per la riduzione del numero dei Parlamentari, è accaduto un fatto di qualche interesse: i deputati del partito democratico hanno contestato duramente il Presidente della Camera, reo, a, detta loro, di aver dichiarato inammissibili una serie di emendamenti.
Il Pd è dichiaratamente favorevole alla riduzione del numero dei parlamentati e, gli emendamenti in questione, miravano ad introdurre modifiche sull’elettorato attivo e passivo, sulla composizione e poteri dei due rami del parlamento e sul bicameralismo perfetto.
Va detto, come inciso, che il provvedimento ci trova totalmente contrari, ritenendo che, in un periodo di evidente compressione della rappresentanza, sia sbagliato idealmente comprimere anche nel numero i rappresentanti eletti, ma di questo ne parleremo in altro momento.
Il motivo per cui il Presidente della I Commissione prima e il Presidente della Camera poi hanno ritenuto inammissibili quegli emendamenti si basa sugli articoli del regolamento che restringono il campo dell’emendabilità o degli articoli aggiuntivi all’ambito degli argomenti considerati nella proposta di legge.
Quando nel 2016 ci battemmo strenuamente contro la “deforma costituzionale” del partito democratico, uno degli argomenti, che usammo all’epoca, era proprio la critica della forma, in quanto la Costituzione all’articolo 138 parla di “revisione”, termine che presuppone modifiche mirate e circoscritte. Portammo ad esempio il fatto che nelle passate legislature, quelle della così detta prima repubblica, quando i gruppi parlamentari intendevano promuovere riforme sostanziose, predisponevano svariate proposte di revisione che incidevano singolarmente in modo circoscritto, ma, se approvate tutte, avrebbero di fatto modificato sostanzialmente la costituzione. Ci sembrava quello uno stile riguardoso e rispettoso dei valori e dei principi costituzionali. Anche perché ognuna di quelle proposte doveva passare per rigorose norme di garanzia, tra le quali, appunto il referendum. Quella delicata distinzione di stile, sfuggita la scorsa legislatura al partito democratico, tuttora sembra assolutamente incomprensibile agli esponenti PD che oggi si sono, ipocritamente, scagliati contro il presidente Fico. Ad accusarlo di voler comprimere il dibattito e mortificare i diritti delle minoranze, sono stati proprio gli stessi che, nella scorsa legislatura furono i paladini delle forzature renziane e del totale dispregio delle minoranze.
Non importa se il Presidente Fico abbia assunto quella distinzione di stile per trovare una motivazione alta, per rendere più rapida l’approvazione di questa revisione costituzionale, come suggerirebbero i detrattori. Oggi siamo convintamente dalla parte di chi ha difeso il confine sottile tra “revisione” e riforma, ripristinando, nella prassi parlamentare, il principio del limite, nell’accostarsi alla Costituzione.
Senza commentare il fatto, deprecabile, che la stragrande maggioranza degli emendamenti pd erano atti a riproporre le stesse modifiche che nel 2016 furono decisamente bocciate dal referendum costituzionale.
Mi spiacerebbe veramente se si prendessero strade che conducono dalla parte sbagliata. Non e’ il numero (la quantita’) dei componenti del parlamento che puo’ connotare il grado di efficienza di una democrazia. Senno’ saremmo indotti a pensare che la democrazia Usa – il cui senato e’ composto da 100 eletti e la cui camera dei rappresentanti da 435 – sia inferiore alla italiana, con un parlamento composto da 950 membri (320 + 630). E’ il grado di rappresentativita’ degli elettori, i poteri che vengon attribuiti agli eletti (impeachment, ad esempio), le competenze che li contraddistinguono, il prestigio che riscuotono nella pubblica opinione e l’esempio che possono offrire (McCain era un semplice senatore, ma che senatore…) a contraddistinguere, e porre in alto in una ipotetica classifica di merito, una democrazia. Se si critica la proposta di riduzione dei membri del parlamento lasciando intendere che da cio’ possa derivare una limitazione della rappresentanza elettorale e/o una compressione della partecipazione dei cittadini alla vita politica si prende l’ennesima cantonata. La questione riguarda i meccanismi di selezione di una classe politica, non il numero degli eletti. In buona sostanza, si tratta di scegliere bene i propri rappresentanti, non di nominarne un numero spropositato, rispetto alle altre nazioni ed alle proprie necessita’ tenuto presente l’impianto istituzionale costituito da altri enti legiferanti. Detto inter nos, abbiamo bisogno che a rappresentare gli italiani ci siano tanti Razzi, Siri, Fatuzzo ecc.ecc o il problema e’ proprio quello, che a rappresentare gli italiani sono loro?