di angelo perrone *
Il ricordo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a distanza di quasi trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, non rischia di scadere nella retorica celebrativa. Non solo a causa della tragicità sanguinosa degli eventi. Ad alimentare la memoria, è il pensiero commosso per quella testimonianza di vita a servizio della giustizia
Il rischio è cedere alla tentazione della retorica commemorativa, fatta di slogan e luoghi comuni, quando ricorrono anniversari drammatici. Come quello delle stragi mafiose del 1992, Capaci e via D’Amelio, in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e gli uomini e donne delle loro scorte.
Ecco cerimonie nelle quali vengono espressi concetti roboanti, destinati a durare il tempo delle celebrazioni. Il momento centrale è rappresentato dall’intervento di esponenti politici, uomini delle istituzioni, rappresentanti di organizzazioni. Corone d’alloro, fiori, discorsi. La fase con il maggior rischio retorico.
Non mancano affermazioni perentorie, proclami e annunci. È rivendicato in tutte le forme l’impegno antimafia. Di più: guardando ai problemi d’oggi, è assicurato ogni sforzo per rendere la giustizia più efficiente e credibile. Chi potrebbe dubitarne allora? Difficile dire quanta coerenza ci sia stata in trent’anni circa da quel 1992.
Le strade e piazze sono intitolate ai due giudici, ovunque scuole, edifici pubblici, istituzioni. Portano i loro nomi. Sono stati creati organismi per tutelare la legalità, difendere le vittime di mafia, o almeno sensibilizzare la gente. L’apparenza però non deve fuorviare.
Innumerevoli vicende segnalano che la mafia non è stata debellata, ma si è infiltrata altrove nel tessuto sociale, al nord e al centro del paese, nei territori che offrono spazi alla speculazione e al riciclaggio, e dove la politica non fa argine.
La fiducia dell’opinione pubblica è scossa dagli episodi di malgoverno della magistratura, dagli scandali che si accavallano, dalla mancanza di trasparenza e correttezza che emerge nelle vicende giudiziarie: pensiamo al caso Palamara, alle manovre correntizie per influire sulle nomine dei vertici, alla storia opaca del trafugamento di verbali segreti sulla presunta loggia Ungheria.
Nell’immaginario collettivo, Falcone e Borsellino formano ormai un binomio indissolubile e così rimangono nella memoria collettiva. L’amicizia personale e professionale si è saldata definitivamente nell’identico destino. Ricordiamo l’uno pensando subito all’altro. Anche quando ricorrono i rispettivi anniversari (a soli 45 gg di distanza) il ricordo li accomuna sempre nella gratitudine di tutti.
È inestricabile l’intreccio delle loro vite e delle sorti individuali. La comunanza delle idee, lo stesso coraggio. La medesima abnegazione riconoscibile nelle scelte. Una sola “entità”, addirittura una sola grande famiglia, che comprendeva tutti, anche il personale di scorta con quella silenziosa poliziotta, Emanuela Loi, prima donna caduta in servizio.
Quando si avvicina l’anniversario, a differenza di altre occasioni, accade qualcosa di particolare. L’orologio della storia si sposta bruscamente all’indietro. La retorica è sospinta fuori dalla porta. Ci si sente infatti sbalzati dalla propria sedia, proiettati bruscamente altrove. Trasportati nel sangue e nella lacerazione di quei giorni. Impossibile pensare ad altro. Perdersi nella strumentalità delle contrapposizioni politiche.
Ricompaiono le immagini della tragedia. Lo squarcio sull’autostrada siciliana presso Capaci al passaggio dell’auto di Falcone e della moglie Francesca Morvillo, provocato da 500 chili di tritolo; la colonna di fumo visibile a distanza; il sapore acre della morte. L’inferno scatenatosi davanti al palazzo di via D’Amelio a Palermo, per lo scoppio di una 126 rubata, contenente 90 chili di esplosivo, mentre Borsellino, come tutte domeniche, si recava a far visita alla madre.
Ma, con esse, emergono anche altri riquadri di vita, attraversati da quell’aria distesa e nervosa che precede la tempesta e la rende ancor più cupa. L’apparenza di normalità racconta, meglio di ogni altra cosa, quelle esistenze e il dramma vissuto.
Appare una casermetta di mattoni rossi che si riflette sul mare turchese di sconfinata bellezza. È la foresteria di Cala d’Oliva all’Asinara, dove Falcone e Borsellino, con le rispettive famiglie, vennero richiusi nell’agosto del 1985 per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio nel maxiprocesso contro la mafia (due anni dopo: 19 ergastoli, altri 2665 anni di carcere), al riparo dalle minacce di attentato che trapelavano nelle carceri.
Compaiono anche le foto dei rari momenti di pausa, brevi intervalli nelle giornate dedicate a studiare e scrivere: i due a fumarsi una sigaretta insieme e parlottare tra loro, nonostante tutto. Lo sguardo disteso e profondo, verso l’orizzonte senza fine, prima dell’uragano. Sulle labbra, quell’accenno di sorriso, che poi un fotografo fortunato avrebbe colto e immortalato per sempre trasmettendoci così la loro immagine di uomini cordiali e fiduciosi, legati da profonda amicizia.
Adagiata silenziosamente sugli scogli, una vista mozza fiato, la struttura dista poche centinaia di metri dal carcere bunker dove scontava la pena un mafioso, Raffaele Cutolo, e dove – per contrappasso – sarebbe stato seppellito nel 1993 il capo dei capi della mafia, il corleonese Totò Riina, “u’curtu”, che al suo sbarco all’Asinara ebbe a dire “me la pagheranno”.
Ora l’Asinara è parco nazionale. Il carcere chiuso. La foresteria, ristrutturata e dotata di galleria fotografica, è visitata ogni anno da scolaresche e turisti. Sulla parete esterna dell’edificio, è apposta una targa. Due frasi dialogano tra loro. È come se quei due uomini fossero sempre lì, in carne ed ossa, a discorrere e confidarsi.
“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola” (Borsellino). “La mafia non è affatto invincibile: è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine” (Falcone). L’aria nell’isola, anche nelle giornate ventose, è calda e leggera, qualcosa rende il luogo più silenzioso e incontaminato.
* Angelo Perrone è giurista e scrittore. È stato pubblico ministero e giudice. Si interessa di diritto penale, politiche per la giustizia, tematiche di democrazia liberale: diritti, libertà, diseguaglianze, forme di rappresentanza e partecipazione. Svolge studi e ricerche. Cura percorsi di formazione professionale. È autore di pubblicazioni, monografie, articoli. Scrive di attualità, temi sociali, argomenti culturali. Ha fondato e dirige “Pagine letterarie”, rivista on line di cultura, arte, fotografia. a.perrone@tin.it