di enzo marzo
Due giorni fa ho partecipato a un dibattito sul diritto alla conoscenza. Due giorni prima era stato approvato a larga maggioranza un documento su questo argomento dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Ho dovuto ringraziare il suo autore, il senatore piddino Rampi, perché mi sembra che per la prima volta si sia cercato di superare la vaghezza delle belle parole e di indicare delle soluzioni concrete. Speriamo che l’iter faccia passi avanti. Ovviamente vi si parla molto dei media. Lo scopo è quello di far promuovere il diritto alla conoscenza a diritto umano. A me di sinistra liberale indica il sentiero Luigi Einaudi col suo “conoscere per deliberare”, a me europeo indica il sentiero Dante col suo invito a “seguir vertute e conoscenza”. Voi direte , tutto scontato, ma è cosi? O ci stiamo prendendo in giro reciprocamente facendo finta che le nostre democrazie siano davvero tali, facendo finta che i mezzi di comunicazione siano davvero liberi? Mi pare che siamo tornati all’ipocrisia dello statuto albertino che nel suo testo preparatorio affermava che “la stampa è libera ma sottomessa a leggi repressive”. Non sorridete. Noi potremmo dire: la stampa è libera ma sottomessa a regole che nessuno fa rispettare, al crollo della professionalità, alla pubblicità occulta, al terribile conformismo della concentrazione editoriale, alla precarietà che rende schiavi, alla ignoranza che è l’esatto opposto della conoscenza.
Il cumulo degli strumenti informativi è impressionante. Però, se ciascuno dei segmenti di questo cumulo è inquinato, perché non libero davvero, il Tutto si tramuta in un incubo di conformismo e di illibertà. L’opinione pubblica viene blandita come dominatrice e onnipotente, ma in effetti è manipolata, eterodiretta, svigorita. Gli strumenti del comunicare sono inesorabilmente e progressivamente concentrati. Dappertutto regnano, se non il monopolio, l’oligopolio e strutture elefantiache, costosissime, irraggiungibili dalle minoranze ideologiche.
Alcuni decenni fa è stato scritto un grosso volume, di Serge Tchakhotine, ormai un classico: il suo messaggio è ben riassunto dal titolo: Le viol des foules par la propagande politique, un libro che rende bene ciò che è avvenuto nel xx secolo. Qual è la differenza tra quei tempi e l’oggi? Che allora quella stupro era violento e visibile. E certo la massa soccombeva. Oggi tutto è più subdolo. Il lettore, lo spettatore e l’ascoltatore, che appaiono ovunque protagonisti, in realtà sono ridotti a oggetti inconsapevoli. Non sono titolari di alcun diritto. I risultati della conquistata libertà d’impresa mediatica sono deprimenti. Il lettore-consumatore si difende come può e arretra: abbandona progressivamente gli strumenti più “difficili” e soggiace a quelli più “facili”. Va sempre meno in edicola ad acquistare i quotidiani e giace di fronte alla Tv e al Pc assimilando le improbabili notizie televisive che gli si accavallano nella mente in un guazzabuglio di fiction, di news e di discussioni al cui confronto il bar dello sport è l’accademia di Platone.
Dov’è finito lo spirito che guidò i padri costituenti e che ci regalò la democrazia? Secondo me è sparito. Secondo Robert A. Dahl, dei cinque criteri che contraddistinguono una democrazia compiuta ben tre riguardano i media: 1) partecipazione effettiva («prima che una strategia venga adottata […], tutti i membri devono avere pari ed effettive opportunità per comunicare agli altri le loro opinioni a riguardo»); 2) diritto all’informazione («entro ragionevoli limiti di tempo, ciascun membro deve avere pari ed effettive opportunità di conoscere le principali alternative strategiche e le loro probabili conseguenze»); 3) controllo dell’Ordine del giorno. Altri hanno sostenuto che «offrire opportunità di crearsi una conoscenza chiara delle questioni pubbliche non è solo parte della definizione della democrazia, ne è un requisito fondamentale». Se si intende la democrazia non solo come forma di governo, i requisiti minimi sono la “Libertà d’espressione” e la possibilità di “Accesso a fonti alternative d’informazione”. Ma le cosiddette democrazie occidentali possono dichiararsi tali senza continuare a perseguire almeno quei requisiti minimi che tutti noi consideriamo necessari? Siamo ben lontani dalla “democrazia della società civile”. Viviamo il fallimento della democrazia costituzionale, ovvero della democrazia delle regole. Ora il gioco è visibilmente truccato sia dalla manipolazione dell’opinione pubblica sia dall’esiguità e dalla predeterminazione delle scelte del singolo elettore. Anche recentemente abbiamo vissuto una stagione in cui si sono usati i giornali come manganelli e siamo stati sommersi da una retorica ridicola che nella nostra storia ha avuto precedenti solo nel regime fascista. L’attuale cittadino- elettore, che sempre più si è convinto che per esprimere con maggiore vigore la propria scelta politica debba non recarsi alle urne, deve rendersi conto che ancor prima di elettore egli è (e deve diventare) un lettore consapevole, con diritti riconosciuti sul controllo e sulla trasparenza, e non un consumatore di media facile preda di propaganda e di manipolazione. Bisogna cominciare a lottare – come sostenne Sartori – affinché anche le opinioni siano libere «cioè liberamente formate». Restiamo su queste parole di Sartori, che certo non fu un rivoluzionario scatenato, ma queste parole – nella melma in cui siamo ridotti – appaiono davvero rivoluzionarie. Vogliamo tornare allo stupro denunciato prima o alla convinzione di Goebbels che «niente è più facile che portare a guinzaglio un uomo»?
Tra le attuali emergenze democratiche va quindi annoverata anche una vera riforma, legislativa e non, che costruisca le condizioni strutturali sia per garantire la libertà d’informazione sia per fondare i diritti dei lettori- consumatori. Per essere efficace, essa dovrebbe perseguire cinque criteri: 1 sancire la rilevanza di primario interesse pubblico, ripeto interesse pubblico, d’una informazione libera, quale componente necessaria per l’esistenza di una democrazia politica. 2 stabilire che la libertà d’informare non può essere garantita da altro se non da un effettivo pluralismo delle fonti. 3 perseguire la massima separazione possibile tra il potere politico, quello economico e quello mediatico. 4 riconoscere al bene “informazione” uno status differente da quello di semplice merce, e quindi costruire per le imprese editoriali una forma di governance con una propria esclusiva tipicità. 5 considerare basilare la presenza del lettore-consumatore tra i protagonisti del processo informativo. Lo so, “vasto programma”. Ma la questione va aggredita alle fondamenta. In Italia, rispetto a questi problemi siamo alla preistoria, ancorati come siamo alla lottizzazione spacciata per pluralismo e al “servizio pubblico” realizzato dalla autoritaria riforma Renzi, ovvero da un governo che passava per essere di centrosinistra.
Ma chi oggi riflette su questi problemi proponendo delle soluzioni?
Per ora appare impossibile far entrare questa questione nell’agenda della politica. A parte le questioni fondamentali e strutturali, anche sui primi passi si incontrano difficoltà insuperabili. Apro due questioni che sono sotto gli occhi di tutti. E tutti fanno finta di non vedere.
Prima questione: La pubblicità inquinata. Questa truffa si è data anche una “filosofia” e viene teorizzata. Il concetto di “pubblicità nativa” nata negli stati uniti mira proprio a superare il vecchio concetto di pubblicità e a confondersi totalmente, anche nella forma e nella scrittura, con i contenuti redazionali, affinché il lettore non riesca ad accorgersi dell’inquinamento. È pubblicità che si camuffa da giornalismo. Il “Native advertising” è un’espressione che descrive una nuova tecnica pubblicitaria e un vero e proprio reato, una variazione specifica della truffa, ossia una forma di pubblicità a pagamento atta ad ingannare il lettore-consumatore: per generare interesse negli utenti, assume l’aspetto dei contenuti del vettore di comunicazione che la ospita. L’obiettivo è riprodurre nell’utente l’esperienza del contesto in cui il falso articolo-pubblicità è posizionato sia nell’aspetto sia nel contenuto. Se esiste la fattispecie della pubblicità ingannevole, quale pubblicità è più ingannevole di un articolo firmato da un giornalista che incorpora una velina di un ufficio stampa o direttamente un messaggio pubblicitario? Il lettore è convinto che quella sia l’opinione o la notizia selezionata da un giornalista, mentre invece è solo uno spezzone di un catalogo di moda o la segnalazione acritica di un prodotto. Gli editori per alcuni spiccioli si stanno “mangiando” il capitale di autorevolezza accumulato in certi casi da più di un secolo e sembrano ignorare che la informazione stampata potrà resistere alla concorrenza spietata della Rete unicamente grazie alla professionalità e alla autorevolezza.
La “pubblicità nativa”, ovvero truffaldina, inonda tutti i quotidiani di carta stampata violando codici deontologici sia giornalistici sia pubblicitari, nonché l’art. 44 dello stesso contratto nazionale giornalistico. Però, a mio avviso, la pubblicità nativa è addirittura meno grave del silenzio-assenso del sindacato dei giornalisti che avrebbe tutti mezzi per stroncarla, ma è da tempo silente, inerte, addirittura complice in questa e in altre prestazioni di distruzione del giornalismo nostrano.
Seconda questione: i diritti dei lettori. Nessuno mai ha pensato di garantire i diritti dei lettori. Eppure i lettori sono consumatori di una merce ben più delicata di altre, perché condiziona la salute mentale e democratica. Il lettore oggi non ha che pochissime guarentigie sul prodotto che acquista e quelle poche sono disattese. Ugualmente il lettore non viene informato di come si forma nel “suo” giornale il processo informativo, e scarse sono le difese di legge contro le prevaricazioni ch’egli subisce. La trasparenza è nulla. Forse basterebbero poche regole, ma drastiche, per sanare i guasti più visibili. Io ho scritto uno “Statuto dei lettori”, che ovvierebbe a questa inconcepibile lacuna esistente, per dire la verità, anche nei paesi occidentali più avanzati. I lettori-consumatori non vengono mai considerati come tali. Nel Documento del consiglio di Europa ho notato delle tracce che si pongono il problema. Ho presentato il mio “Statuto dei lettori” a molti giornali ed editori, ha ricevuto molti complimenti, ma nessuno lo ha adottato. Io insisterò. La politica è assente perché è subordinata al potere mediatico. Ma il mio motto è “non mollare” e quindi non mollerò.
Intervento di Enzo Marzo durante il convegno “IL DIRITTO ALLA CONOSCENZA – I WHISTLEBLOWERS. I CASI ELLSBERG, ASSANGE, SNOWDEN
Promosso insieme al Premio Mimmo Cándito, con la collaborazione di Fondazione Lelio e Lisli Basso, la Fondazione Paolo Murialdi, Professione Reporter, L’Indice dei libri del mese, Critica Liberale
SENATO DELLA REPUBBLICA, VENERDÌ 25 GIUGNO 2021
Il convegno è visibile su