di angelo perrone
Qualunque cosa voglia dire, non riguarda il 25 aprile. L’avvertimento del governo, dopo la morte di papa Francesco, affinché la ricorrenza della Liberazione dal nazifascismo, sia vissuta con «sobrietà» suona stonato. Quasi un pretesto per ridimensionare il significato della data. Non c’entrano il rispetto per il lutto nazionale né la commozione per la morte di un uomo così importante per l’umanità tutta, credente o meno.
La sollecitazione alla sobrietà ha radice in un’associazione errata tra la nozione di Liberazione e i concetti di sguaiatezza, esagerazione, inopportunità. Fa supporre che il problema non sia tanto l’aspetto cerimonioso (più o meno composto) quanto il nucleo autentico della data che si commemora.
Quasi che la questione sia proprio questa, il senso radicale della ricorrenza nella coscienza di ognuno, più che il modo di festeggiarla. Del resto non servono speculazioni per dubitare dell’animo con cui il ceto politico governante, post-fascista o immemore del fascismo, affronta la data storica.
Invece, serve la consapevolezza di un’identità: l’essenza autentica del 25 aprile si nutre di «sobrietà», cioè di compostezza, rigore, autorevolezza. Perché con la liberazione il Paese ritrova il suo orgoglio e la sua dignità, si ricollega alle radici storiche di libertà e democrazia e lo fa nel modo più serio, e appunto sobrio, si possa immaginare, cioè accettando di pagare, per tante conquiste di libertà, il prezzo della vita stessa.
La celebrazione della ricorrenza, con la festa del 25 aprile, è di per sé, specie nell’ottantesimo anniversario, un evento appropriato, e quanto mai pertinente nella sua attualità ed importanza, addirittura necessario in un momento in cui, ancora una volta e minacciosamente, sono in pericolo le basi della Repubblica, costruite con la Resistenza e la Costituzione.