Per un codicillo la Chiesa vince 655 milioni

di sergio rizzo

Con 655 milioni di euro si possono fare un sacco di cose. Come aumentare di mille euro all’anno lo stipendio di tutti gli insegnanti delle scuole statali. 0 finanziare l’acquisto di 3 milioni di tablet per i nostri studenti. Oppure coprire abbondantemente per un anno intero la spesa sanitaria del­la Regione Molise e dei suoi 305 mila abitanti. Invece quella somma la regaliamo tutti gli anni al Va­ticano. Conosciamo l’obiezione dei diretti interessati: “Regalare” non è il termine esatto. Non lo è per il semplice fatto che lo prevede una legge dello Stato italiano. Una legge approvata dal parlamento nel maggio 1985, governo di Bettino Craxi. E il provvedimento che ha recepito nel nostro ordinamento la revisione dei Patti Lateranensi firmati da Benito Musso­lini e Pietro Gasparri, segretario di stato di Pio XI, nel 1929.

Con quella legge targata Craxi il finanziamento della Chiesa cattolica è stato affidato alla libera scelta dei contribuenti. Con l’8 per mille delle loro tasse. Tutto chiaro, all’apparenza. Quando si presenta la denuncia dei redditi basta esprimere la scel­ta compilando un piccolo modulo con il quale la somma viene destinata a una del­le diverse confessioni religiose ormai riconosciuta, la Chiesa ovviamente in cima a tutte, oppure in alternativa allo Stato.

C’è però nell’articolo 47 una clausola diabolica: aggettivo non esattamente consono alla materia, ma che rende bene l’idea. «In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse», stabilisce il terzo comma.

Ecco in concreto come funziona e attenti ai numeri, anche se vi gira la testa, i contribuenti che compilano il modulo per assegnare l’8 per mille sono da sempre una minoranza. I dati del 2022, che si riferiscono alle dichiarazioni dei redditi del 2018 parlano di circa 17 milioni, cioè il 41,2 per cento del totale. Ed è ovvio che in un Paese cattolico come il nostro chi decide di finanziare la Chiesa ne rappresenti la maggioranza. Sono circa 13 milioni, il 77,5 per cento di quel 41,2 per cento di contribuenti, il gettito complessivo dell’8 per mille nel­lo stesso anno ha raggiunto un miliardo e 434,3 milioni, Ne discende, sempre se la matematica non è un’opinione e supponendo un valore medio delle denunce dei reddi­ti, che al Vaticano dovrebbe andare con l’8 per mille una somma di 456,5 milioni, cioè il 77,5 per cento del 41,2 per cento. Che sarebbe, a conti fatti, meno di un terzo del totale. La Chiesa ha incassato invece un miliardo 111 milioni 579.111 euro, pari a oltre i tre quarti dell’intero gettito.

Come si spiega? Con il fatto che grazie a quel comma anche la parte dell’8 per mille che nessuno ha destinato, ed è la fetta più grossa (oltre il 58 per cento), va comunque ripartita. E si ripartisce in proporzione delle «scelte espresse». Ciò significa che pure il 77,5 per cento di chi non ha deciso di finanziare la Chiesa cattolica sarà costretto a farlo a sua insaputa. Sono ben 19 milioni di contribuenti, moltissimi dei quali probabilmente convinti che non esprimendo alcuna scelta i soldi sarebbero rimasti all’Erario. Come la logica suggerirebbe. Ma qui la logica è diversa. E il Vaticano ovviamente ringrazia per i 655 milioni l’anno in più garantiti da quel comma del nuovo Concordato. Alla faccia del libero arbitrio.

Di tanto in tanto si leva qualche flebile voce per far presente l’assurdità di quel comma della legge approvata dal parlamento al tempo del governo Craxi, Ma cade regolarmente nel vuoto. L’ha fatto la Corte dei Conti, ripetutamente, senza successo. Alcuni politici, soprattutto i radicali, con il medesimo risultato. Nel dicembre del 2015 il “Fatto quotidiano” chiese al futuro capo delle finanze vaticane, monsignor Nunzio Galantino, se non fosse arrivato il momento di accettare di lasciare allo Stato la quota dell’8 per mille non sottoscritta. «Non sono d’accordo. La Chiesa restituisce quei fondi decuplicati in termini di vicinanza, servizi e solidarietà», rispose lui risoluto.

Nessun dubbio. A parte il fatto che ogni tanto salta fuori qualche sgradevole caso di piccole malversazioni, e qui i vertici dell’attuale papato si mostrano risoluti. «Quando sento di casi di religiosi che si intascano soldi destinati alla carità, provo il vivo prurito di costituirmi parte civile in un processo a loro carico: non si possono calpestare né i poveri né i fedeli in questo modo, che getta fango su vescovi e preti esemplari. La Chiesa deve chiedere i danni», è la tesi di monsignor Galantino.

E per non parlare del ruolo degli intermediari delle denunce dei redditi che qualche volta si sostituiscono al contribuente nella scelta, circostanza sgradevole e niente affatto isolata. Una indagine condotta dall’Agenzia delle entrate sulle dichiarazioni del 2014 e 2015 ha riscontrato, racconta una relazione della Corte dei Conti, «casi di interferenza nel processo decisionale dei contribuenti e un numero significativo di infedeli trasmissioni del dati da parte dei Centri di assistenza fiscale». Si è scoperto che per prassi consolidata alcuni Caf “consigliavano” semplicemente ai contribuenti che si rivolgevano a loro la destinazione dell’8 per mille alla Chiesa cattolica.

Il fatto è che anche senza questi presunti condizionamenti i soldi sono diventati davvero tanti. Ormai il doppio, o giù di lì, rispetto a 25 anni fa. Nel 1994 si toccò il record di 702 miliardi di lire, pari a 675 milioni di euro attuali, mentre da un decennio a questa parte si supera, e talvolta di slancio, il tetto del miliardo di euro. E questo nonostante la quota dell’8 per mille destinata dagli italiani alla Chiesa tenda a diminuire sempre più.

Lo Stato sa bene che quei soldi sono decisamente troppi, Anche in considerazione dello stato non certo esaltante dei nostri conti pubblici. L’ha fatto anche presente, più d’una volta, al Vaticano. Chi negoziò con la Chiesa all’inizio degli anni Ottanta, pur concedendo quella clausola folle in contrasto con il principio della libertà individuale stabilito dalla nostra Costituzione, si rendeva però conto dei rischi che avrebbe comportato. Infatti l’articolo 49 stabilisce che ogni tre anni una commissione paritetica debba procedere a una revisione del meccanismo. Peccato che da quando la commissione ha debuttato niente è mai cambiato.

II verbale dell’ultima riunione di questo comitato di cui si abbia notizia è allegato a una relazione della Corte dei conti del 2018.  Ma risale al 19 ottobre 2016, ed è assolutamente istruttivo.

Il capo delegazione del governo italiano è il luminare delle relazioni fra Stato e Chiesa Francesco Margiotta Broglio, già componente della commissione che mise a punto il nuovo Concordato, affiancato dal professor Carlo Cardia e dalla direttrice delle Finanze Fabrizia Lapecorella. E prova a saggiare la resistenza della controparte. «Tenuto conto degli anni trascorsi dall’entrata in vigore della legge del 1985 ritiene di dover proporre che venga concretamente discussa l’opportunità di una revisione della quota dell’otto per mille in vista di una sua riduzione quantitativa», fa mettere a verbale. Ma monsignor Galantino, che capeggia la delegazione vaticana, risponde cortesemente picche: «Considerato il risultato ampiamente positivo del sistema (…) non si ravvisano ragioni per valutare positivamente la proposta». Amen. Risponde picche anche alla richiesta di non utilizzare più i soldi dei contribuenti italiani per finanziare alcune attività, come i tribunali ecclesiastici e i «mezzi di comunicazione sociale». Cioè, banalmente, l’impiego di quelle risorse anche per la pubblicità.

E la cosa finisce così, più di sei anni fa. Nel frattempo gli incassi dell’8 per mille continuano a galoppare, ingrossando i rivoli di denaro che dallo Stato italiano contribuiscono a mantenere gli apparati ecclesiastici. Non parliamo dei finanziamenti ai giornali, come i 2,7 milioni di contributi pubblici al quotidiano della Conferenza episcopale Avvenire, o i 3 milioni a Famiglia Cristiana delle Edizioni Paoline; sono cifre perfino modeste, in rapporto ai fiumi di soldi dei contribuenti che vanno a pubblicazioni assai meno socialmente utili.

C’è poi la questione dell’imposta comunale sugli immobili della Chiesa, che si trascina da tempo immemore con il contributo della Commissione europea, che ci ha messo oltre un decennio per intimare allo Stato Italiano di recuperate le somme dovute all’Erario. Ma solo per il periodo dal 2006 al 2011.

E quanti sanno che dal 1973 l’lnps paga anche le pensioni dei preti? All’Istituto nazionale di previdenza c’è un fondo apposito creato da un governo democristiano. Esattamente il secondo presieduto da Giulio Andreotti, e la legge istitutiva porta la firma del cattolicissimo Dionigi Coppo, uno dei fondatori del sindacato cattolico Cisl. Si chiama “Fondo clero” e perde decine di milioni l’’anno. A fronte di entrate contributive per 31 milioni, le pensioni ne costano ogni anno 74. Ragion per cui il fondo ha accumulato un disavanzo patrimoniale di 2,3 miliardi: aumentato in 25 anni dell’89 per cento. Nel 2015 una verifica interna ha consentito di appurare non senza sorpresa che il 72 per cento dei circa 11.900 religiosi pensionati gode anche di una seconda pensione. Nessuno però e ancora riuscito a risolvere il mistero per cui gli iscritti al Fondo clero siano esentati dalle restrizioni previste dalla legge Fornero.

[Riproduzione autorizzata da “Espresso” del 19 marzo 2023]

Un commento su “Per un codicillo la Chiesa vince 655 milioni”

  1. «…Quando sento di casi di religiosi che si intascano soldi destinati alla carità, provo il vivo prurito di costituirmi parte civile in un processo a loro carico…»

    E poi, è mai successo che il Galantino si sia costituito parte civile?

Rispondi a Klaud Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.