Fahim, alla guerra delle rose

di angelo perrone

Una girandola di trasferimenti. Dall’Italia in Albania, poi indietro, e infine dall’Italia in aereo in Bangladesh. Ci sono voluti quattro viaggi in sette giorni, la nave da guerra, l’aereo, e l’accompagnamento di due poliziotti. Risultato, il rimpatrio di un solo migrante irregolare, certo Fahim, 49enne, venditore di rose.

Uno sforzo inaudito, per tempo, mezzi, tragitto, denaro. Con una spesa stimata in 6000 euro (e sarebbe bastato un quarto se il rimpatrio fosse avvenuto direttamente dall’Italia). Eppure, legge ed ordine, secondo i loro cantori, Meloni, Nordio, Piantedosi. Perseveranza e cocciutaggine. Verrebbe da dire: non-senso.

L’evento, nonostante la pochezza, è stato rimarcato dal governo come un successo. Così il ministro degli Interni Piantedosi entusiasta: «Primo rimpatrio dall’Albania di un cittadino straniero trattenuto nel centro per il rimpatrio di Gjader. Le operazioni di rimpatrio dei migranti irregolari proseguiranno come previsto dalla strategia di governo per una più efficace azione di contrasto all’immigrazione illegale.»

L’accordo con l’Albania, soluzione innovativa per snellire le procedure di rimpatrio, è un meccanismo macchinoso, incomprensibile. La tortuosità della procedura moltiplica i costi. La sola realizzazione dei centri ha richiesto 680 milioni di euro, a nostro carico. Il caso Fahim evidenzia inefficacia e sproporzione mezzi-fini. Sino al paradosso di essere riusciti, con uno sforzo immane, non replicabile perché fallimentare, a rimpatriare un poveraccio, così pericoloso da sopravvivere vendendo rose per strada.

Oltre all’aspetto economico, emergono questioni giuridiche e umanitarie dopo la polemica sui «porti sicuri». Non è bastato trasformare la struttura albanese in un CPR (centro di permanenza per il rimpatrio) per darle un futuro. Anche su questa nuova soluzione, le «toghe rosse», vestali apparenti del diritto europeo e in realtà solo avversarie del popolo sovrano, hanno avuto da ridire. La Corte d’Appello di Roma ha appena stabilito che un richiedente asilo non può essere trattenuto in Albania.

Il precedente rischia di minare l’impianto del protocollo con Tirana. Il modello Gjader genera più problemi di quelli che risolve. Altri tre migranti trasferiti in Albania prima di Fahim sono già stati riportati in Italia: due per condizioni psichiche incompatibili con il trattenimento, uno perché ha chiesto asilo. Il sistema è inefficace, e dannoso.

A tutto questo, si aggiunge un dato: il numero di migranti effettivamente transitati nel centro di Gjader (qualche decina) è tuttora minimo rispetto alle previsioni iniziali (3000 per volta). C’è incongruenza tra mezzi impiegati e risultati, gli obiettivi numerici tanto cari al governo falliscono uno ad uno.

Il progetto avrebbe dovuto almeno alleggerire la pressione sui centri italiani, si rivela investimento dispendioso e inefficace. La gestione dell’immigrazione richiede soluzioni pragmatiche e sostenibili, ispirate al buon senso e alla logica, oltre che al rispetto del dramma umanitario dell’emigrazione.

Il caso del venditore di rose dimostra che il protocollo con l’Albania, invece di semplificare i rimpatri, li ha resi più complessi e costosi. La politica migratoria è trasformata in un circolo vizioso: così, in un gioco di specchi e di illusioni, il contrasto all’immigrazione clandestina si riduce ad una ridicola guerra delle rose.

 

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