di angelo perrone
La scena è degna di un dramma, o forse di una farsa. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si erge sul palcoscenico mediatico, per annunciare l’introduzione del reato di femminicidio. Lo definisce «un risultato epocale», una «manifestazione potente» dell’attenzione dello Stato. La retorica è densa, convinta. Cozza però, senza spiegazioni, con la storia dell’uomo e con le convinzioni professate per decenni. Il giurista di lungo corso, qual si era presentato, compie, una volta sulla poltrona ministeriale, un’abiura intellettuale.
Carlo Nordio era la voce di una critica intransigente verso la “pan-penalizzazione” e l’ansia legislativa dettata dall’emotività del momento. Accadeva, per inciso, quando altri erano al governo. I suoi articoli per Il Messaggero (2016, 2017) e le sue dichiarazioni erano un inno alla semplificazione e all’armonizzazione sistematica del codice penale, un lamento contro le «leggine ad hoc» che lo allungavano a dismisura. Tra gli esempi lampanti della «proliferazione normativa caotica e scoordinata», Nordio citava, oltre all’omicidio stradale, i vari reati economici, e guarda caso il femminicidio.
Una posizione chiara, argomentata. Soprattutto fondata e largamente condivisa da studiosi e operatori del diritto. L’aumento delle pene e l’introduzione di nuovi reati non servono a diminuire i delitti. Lui li definiva, a ragione, «inutili e irrazionali», citando appunto l’omicidio stradale come «l’ultimo di questi prevedibili fallimenti». Ricordava, melanconicamente e con fondamento, come «dopo il giro di vite sulla corruzione, l’omicidio stradale, il femminicidio, le misure antimafia, eccetera eccetera, i delitti non diminuiscono, e l’insicurezza aumenta».
Da ultimo, al momento del suo insediamento, aveva enfaticamente ribadito la necessità di una «forte depenalizzazione» per velocizzare la giustizia, smentendo il pregiudizio che «sicurezza e buona amministrazione siano tutelati dalle leggi penali». Ineccepibile e di buon augurio, finalmente una politica saggia per la giustizia.
Eppure, per tacere d’altro, il 7 marzo 2025, lo stesso Nordio si erge a paladino di un disegno di legge che, in barba a ogni precedente convinzione, introduce un nuovo reato (il “femminicidio”) e inasprisce le pene per la violenza contro le donne. Non solo dimentica le critiche di un tempo, ma esalta quella stessa proliferazione normativa caotica che prima aveva deplorato, senza spiegare, darne conto, illustrare le ragioni del mutamento. La contraddizione suona smentita dei principi che aveva professato, ora sacrificati all’opportunità politica.
Il nuovo convincimento a sostegno del “femminicidio” non fa mistero d’altra parte dell’intento di perseguire uno scopo puramente simbolico, dunque propagandistico, senza una reale utilità pratica. Dimostra la consapevolezza dello strumentalismo da parte di chi governa.
Il ministro non può negare che in atto vi sia il famigerato «allungamento del codice». Questo governo, in poco più di due anni, ha prodotto leggi e norme penali che complessivamente hanno introdotto circa 50 nuovi reati per un totale di pene (ove mai venissero inflitte e eseguite) di circa 500 anni di reclusione.
Solo l’ultimo dl Sicurezza, 14 nuovi reati, oltre agli aggravamenti di pena. Allora l’argomento è altro. Il nuovo reato, dice, manda «un segnale di attenzione particolare da parte dello Stato a questo fenomeno pernicioso e odioso». Un segnale? E dove sono la determinatezza della fattispecie e la sua efficacia concreta?
L’omicidio è già punito dall’articolo 575 del codice penale con una pena non inferiore a 21 anni, fino all’ergastolo con le aggravanti ipotizzabili quando le vittime sono donne in particolari situazioni. Quale pena più elevata può mai essere inflitta con il d.d.l. sul “femminicidio”, oltre l’ergastolo? Non c’è un vuoto normativo che un reato di femminicidio possa colmare. La violenza di genere, la violenza sulle donne, sono già aggravate da specifiche circostanze (come il rapporto di parentela, l’abuso domestico, ecc.) o possono ricadere sotto reati come maltrattamenti in famiglia, stalking, lesioni aggravate.
L’introduzione di un nuovo reato o l’inasprimento delle pene per atti che sono già crimini gravissimi non ha, Nordio insegna, un effetto deterrente significativo. Chi commette un omicidio non si ferma di fronte alla minaccia dell’ergastolo, che già esiste, non lo farà neppure se il ministro vorrà definirlo “femminicidio”.
Questa legislazione, dal dl anti-Rave al dl Sicurezza infine al Femminicidio, è un’operazione di “marketing” politico. Serve a dare l’impressione che il governo stia “facendo qualcosa” di fronte a un’emergenza sociale, spesso strumentalizzando i casi di cronaca più efferati. Crea titoli sui giornali, alimenta il dibattito sui social media, ma non affronta le radici del problema: la cultura della violenza, la mancanza di prevenzione, la lentezza dei processi, l’inefficacia delle misure cautelari. Questa è una mistificazione pericolosa della realtà, che svilisce il ruolo del diritto penale e lo trasforma in un’arma politica, anziché strumento di giustizia.