di gian giacomo migone
È necessaria una strategia indipendente di una Europa sempre più unita. I crolli sistemici determinano un vuoto di potere che viene riempito da iniziative e scontri. C’è un non detto che riguarda il ruolo degli Stati Uniti dopo il ritiro dall’Afghanistan e le tragiche conseguenze che ne derivano, tuttora in corso. Soprattutto in Italia, dove non bastano i silenzi di Draghi e i balbettii di Di Maio e dei grandi media che ora si fingono post atlantici.
Quanto sta avvenendo in quel lontano paese ha reso visibile ed ineludibile una tendenza in atto da anni, che ha avuto inizio da quella sconfitta subita in Vietnam, dalla conclusione per tanti aspetti simile a quella che si sta dipanando a Kabul: il declino del potere relativo degli Stati Uniti rispetto al resto del mondo.
UN FENOMENO di dimensioni storiche, che perle sue potenzialità tragiche non consente dinieghi, nemmeno parziali, ma nemmeno esercizi di Schadenfreude , il piacere barbaro che può procurare la sofferenza dell’avversario da parte di chi tradizionalmente vede il grande stato nordamericano come la principale, se non unica, radice dei mali del mondo. Basti ricordare che la prima guerra mondiale quella che i cultori della Realpolitik (un esempio per tutti, Henry Kissinger) evitano di includere nelle proprie analisi, quella che nessuna cancelleria dell’epoca avrebbe voluto, fu in larga parte dovuta al crollo presso che simultaneo di due imperi, quello Austro-Ungarico e quello Ottomano. Perché quei crolli sistemici determinano un vuoto di potere che viene riempito da iniziative e scontri, prima latenti o circoscritti, in seguito non più governabili, di soggetti piccoli e grandi.
QUINDI, PERICOLOSI quanto e più del deterioramento ecologico del pianeta, perché con ricadute potenzialmente più rapide. La diffusione incontrollata delle armi nucleari valga come esempio. Non traggano in inganno gli esempi di Saigon e di Kabul. Le crisi imperiali non si esprimono soltanto in sconfitte militari. Sono anche, forse soprattutto, la risultante di una volontà interna che viene meno ad addossarsi i costi umani ed economici di una politica imperiale.
La sconfitta subita dagli Stati Uniti nel Vietnam fu l’esito del combinato disposto dell’intransigente difesa della propria indipendenza da parte del popolo vietnamita e del rifiuto della maggioranza del popolo americano a continuare a sostenere i costi di quella guerra.
Si può e si deve imputare a Joe Biden l’irremovibile improvvisazione del ritiro delle proprie truppe. Non certo la volontà largamente maggioritaria, nella classe dirigente come nell’opinione pubblica, peraltro marcata dall’identità di vedute con il suo predecessore ed altrimenti acerrimo nemico, di farla finita con un impegno dai costi economicamente stratosferici almeno due trilioni di dollari e dai risultati politici negativi.
AL DECLINO COMPLESSIVO sfugge la potenza e la presenza militare statunitense, superiore a quella complessiva degli altri cinque paesi più armati nel mondo. E che spiega il bisogno di un nemico credibile a credible threat che ne giustifichi gli oneri, anche dopo la fine della Guerra fredda, surrogandola con quella guerra al terrore rispetto alla quale l’attacco alle Torri ha sortito un effetto vitalizzante e che spiega anche la successione d’interventi militari vittoriosi Afghanistan, Iraq, Libia, Siria conclusisi in altrettante sconfitte politiche. Da cui il riaffiorare di quell’impulso isolazionista che costituisce un elemento continuativo e distintivo di un paese protetto da due oceani oltre che dalla sua potenza militare e in cui la vocazione democratica universale, ad un tempo vera e presunta, trova oggi ancora meno adepti che non nei paesi che ne avrebbero dovuto beneficiare.
RESTA IL CONDIZIONAMENTO del complesso militare-industriale a suo tempo denunciato dal presidente e generale Eisenhower, che spiega la perdurante tentazione di reagire militarmente, senza riguardi nei confronti dei propri alleati e giustificazioni esistenziali della Nato. L’elemento di novità dirompente è costituito dalla contestualità della sconfitta politica, drammaticamente vissuta soprattutto all’estero, con una crisi istituzionale interna dall’esito ancora incerto.
È un dato di fatto che l’occupazione del Congresso non può essere liquidata come la bravata di un gruppo di masnadieri, aizzati dal presidente indegno, perché almeno un buon terzo dell’elettorato statunitense è convinto di essere stato derubato dell’esito dell’elezione superfluo, né può essere definitivamente smentito per l’assurdità delle regole e dei meccanismi elettorali vigenti e che Biden non riesce a modificare per un difetto di maggioranza al Senato.
A ciò si aggiunge l’ostilità consolidata della Corte Suprema, arbitra di ultima istanza di ogni prova elettorale, a cui si somma il soffocamento, per ora confermato dall’amministrazione in carica, delle voci di verità come quelle di Julian Assange, Edward Snowden, Chelsea Manning, simili a quella di Daniel Ellsberg guarda caso all’epoca della sconfitta subita in Vietnam. In altre parole, in questa fase sono venuti meno sia i contrappesi checks and balances al potere esecutivo, sia universalità del Primo emendamento che garantisce libertà di parola e di ricerca della verità a tutti. Da questo punto di vista l’esclusione di Donald Trump dai principali canali di internet costituisce un ulteriore, paradossale segnale di debolezza.
Edward Gibbon, grande storico settecentesco dell’impero romano, indica l’inizio del suo declino nell’incapacità di rispettare le regole che esso aveva imposto al proprio impero.
ALTRO CHE SCHADENFREUDE. Qui entrano in gioco realtà e valori che toccano la vita di tutti in un mondo avviato ad autodistruggersi, preda di una concentrazione di poteri finanziari che svuotano funzioni istituzionali, democratiche e non, inducendo fughe da condizioni materiali e politiche di dimensioni bibliche, con una rivoluzione tecnologica in atto che priva quanto abbiamo finora inteso come lavoro di significato. Cogliere i pericoli del tramonto di un’egemonia durata oltre un secolo significa distinguere i benefici che ne derivano da quanto vi sia ancora di prezioso da salvaguardare ed emulare.
Quali responsabilità ne derivano per i più prossimi quali noi siamo? In primo luogo occorre la consapevolezza di quanto sta avvenendo, particolarmente difficile in un paese, prono quale il nostro, all’altrui volontà. Urge una strategia indipendente di una Europa sempre più unita, ma anche un’inversione di responsabilità nella salvaguardia di quanto resta di un patrimonio democratico comune alla grande potenza in declino. E scusate se è poco.
[Il manifesto 12-9-21]