di antonio caputo
Sono affranto per la morte di Franzo Grande Stevens, a cui sono stato legato per un idem sentire, azionista e liberale, liberale e liberalsocialista, predicato da un comune Maestro, il mite giacobino, Prof. Alessandro Galante Garrone, il partigiano Sandro.
Ho conosciuto Grande Stevens negli anni giovanili della comune professione di avvocato.
Morto a 95 anni , nipote del colonnello inglese Stevens, voce di Radio Londra durante la guerra, nato a Napoli, aveva vissuto l’aria della Resistenza, e da quando aveva aperto il suo studio a Torino era diventato l’avvocato dell’avvocato Agnelli e presidente della Juve, oltre ad aver assistito gruppi industriali come l’Olivetti, la Lavazza e la Ferrero.
Figura eminente dell’avvocatura italiana e protagonista di primo piano della storia civile e professionale del nostro Paese.
Dal 1981 al 1991 al CNF, dapprima come consigliere, poi vice presidente ed infine presidente dal 1984 al 1991, Grande Stevens ha saputo unire alla competenza giuridica una visione alta e lungimirante del ruolo dell’avvocatura nella società. E’ stato per oltre settant’anni un protagonista del Foro, della cultura giuridica e della vita pubblica italiana. Difensore in processi di rilievo storico, da quelli delle Brigate Rosse alle grandi vicende economiche italiane, ha lasciato un’impronta personale e inconfondibile, testimoniando con coerenza che l’avvocato, come amava dire, “è e rimane figlio del suo tempo”, chiamato a interpretarlo con integrità correttezza e dedizione nel rispetto della deontologia.
Lo ricordo, durante il processo al nucleo storico delle Brigate Rosse nel 1976 a Torino, quando insieme con gli altri Consiglieri dell’Ordine Forense fu chiamato a difendere d’ufficio gli imputati che, nella logica del processo di guerriglia, non volevano difensori tecnici. Furono giorni drammatici nel Palazzo di Giustizia torinese. Alla prima udienza del 17 maggio 1976, l’imputato Maurizio Ferrari, a nome di tutti gli imputati detenuti, lesse un comunicato: “ci proclamiamo militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse. E come combattenti comunisti ci assumiamo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata presente e futura. Affermando questo viene meno qualunque presupposto legale per questo processo. Gli imputati non hanno niente da cui difendersi. Mentre al contrario gli accusatori hanno da difendere la pratica criminale antiproletaria dell’infame regime che essi rappresentano. Se difensori, dunque, devono esservi, questi servono a voi egregie eccellenze. Per togliere ogni equivoco revochiamo perciò ai nostri avvocati il mandato per la difesa e li invitiamo, nel caso fossero nominati d’ufficio, a rifiutare ogni collaborazione con il potere […]”.
A seguito della revoca dei difensori di fiducia, il presidente della Corte d’Assise di Torino, Guido Barbaro, richiede al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino di indicare un elenco di nominativi di difensori d’ufficio da attribuire agli imputati e procedere alle nomine. Gli imputati, però, dichiararono che non intendevano accettare la nomina di difensori d’ufficio e fecero presente che “qualora i difensori accettassero la nomina saranno ritenuti come collaborazionisti del regime, con le conseguenze che ne potranno derivare”. A seguito di quest’ultimo comunicato, i nuovi difensori d’ufficio nominati dalla Corte, in occasione della seconda udienza del 24 maggio 1976 rimisero a loro volta il mandato. A questo punto, il presidente della Corte d’Assise, constatate le difficoltà di pervenire alla nomina di difensori, incaricò della difesa d’ufficio il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, l’avvocato Fulvio Croce. Il Codice di procedura penale dell’epoca, infatti, prevedeva all’art. 130 che qualora non fosse possibile reperire un difensore d’ufficio il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati dovesse assumere questo incarico. Fulvio Croce, pur essendo avvocato civilista e consapevole dei gravissimi rischi a cui si esponeva, accettò l’incarico e scelse gli altri difensori tra i Consiglieri dell’Ordine; tra essi v’era Franzo Grande Stevens che fu delegato alla difesa di Renato Curcio.
All’udienza del 25 maggio 1976 gli imputati riaffermarono il loro rifiuto della difesa leggendo un nuovo comunicato contenente minacce contro Fulvio Croce ed i legali da esso delegati: “Gli avvocati nominati dalla corte sono di fatto degli avvocati di regime. Essi non difendono noi, ma i giudici. In quanto parte organica ed attiva della contro-rivoluzione, ogni volta che prenderanno iniziativa a nostro nome agiremo di conseguenza”. Nel corso dell’udienza come pure nel corso della quarta udienza del 26 maggio 1976, ogni volta che i legali d’ufficio presero la parola furono insultati e minacciati.
Nel corso dell’udienza del 7 giugno 1976 l’avvocato Franzo Grande Stevens, d’intesa con Fulvio Croce, sollevò non senza genialità una eccezione di incostituzionalità dell’art. 130 del Codice di procedura penale, la norma che imponeva l’obbligatorietà della difesa tecnica anche per l’imputato che la rifiutasse. Grande Stevens ha invocato la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che attribuisce il diritto all’imputato di scegliersi un difensore o difendersi da solo (art.6, comma 3 lett. c). In tal caso l’avvocato poteva essere chiamato non come difensore, ma come amicus curiae perché, nell’interesse della collettività, si riduce il margine di errori nel processo: chiamato cioè come garante di legalità. In breve, Grande Stevens tenterà di dimostrare che quello alla difesa è un diritto ma non un obbligo. Tuttavia la Corte d’Assise, forse anche sotto la spinta emotiva dell’omicidio del Procuratore della Repubblica Francesco Coco, ritenne manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità e così Fulvio Croce assume la veste di difensore d’ufficio dei brigatisti.
Nel primo pomeriggio del 28 aprile 1977, cinque giorni prima della data fissata per l’udienza del processo, un gruppo di fuoco delle Brigate Rosse, formato da tre uomini e una donna, uccise l’avvocato nei pressi del suo studio legale in via Perrone 5 a Torino. L’avvocato venne colpito mentre, dopo essere sceso dalla sua auto insieme alle sue due segretarie, si stava avviando a piedi, sotto una forte pioggia, verso l’ingresso dello stabile.
Lo ricordo ancora negli anni del berlusconismo trionfante attento ai principi della libertà di informazione e della tutela dello stato e in tante altre occasioni di scambi, da ultimo al Centro Gobetti di Torino, in un convegno condiviso sul Partito d’azione e l’azionismo. In quella occasione gli feci una domanda birichina, se pensava che Marchionne avesse uno spirito da “azionista”, aveva appena salvato la Fiat con un accordo con la General Motors. Mi rispose nicchiando, “ non ci avevo pensato, chissà”.
Ciao Franzo, Ti ricordo con affetto, sempre con la Tua inconfondibile eleganza e il Tuo bell’accento partenopeo, sit tibi terra levis!