Cospito e la banalità del male

di angelo perrone

 Tra gli effetti collaterali della vicenda di Alfredo Cospito, autore di una protesta estrema contro il regime di carcere duro, c’è anche la rinascita della galassia anarchica. Un evento inaspettato rivelatosi grave. La vicenda del detenuto ha fatto riemergere, in certi ambienti, passioni sopite, pulsioni eversive, eccitazioni protestatarie. Ne sono derivati scontri, manifestazioni violente, danneggiamenti.

Poi questa storia ha sollecitato infinite discussioni su temi cruciali: funzione della pena e trattamento dei detenuti, moralità e disinteresse dei gesti pubblici, valutazione dei ricatti contro lo Stato. E ancora altro. Il caso, di difficile decifrazione, non deve essere semplificato. È stato sicuramente affrontato in ritardo e in maniera inadeguata. Tuttora mancano idee, oltre che soluzioni.

Vediamo per gradi: persone, ambienti e circuiti insurrezionalisti largamente silenti e sinora distanti si sono risvegliati, ritrovandosi intorno ad un insperato obiettivo comune, che si mostra attrattivo. La battaglia contro il carcere duro ha un sapore vagamente libertario, perciò è galvanizzante e pure stordente. Come se Cospito fosse un neoromantico, mentre è responsabile di fatti di sangue e di gravi attentati in un’ottica insurrezionalista.

Lo sciopero della fame, iniziato da quattro mesi contro il 41 bis, ha avuto il primo effetto di riattizzare il fuoco sotto la cenere, e di confondere le carte. C’è stato un meccanismo aggregante intorno al gesto di protesta, utilizzato facendo leva su fattori opposti, nobiltà etica e spregiudicatezza politica.

Il gesto è apparso a suo modo “apprezzabile” (non condivisibile) per lo scopo altruista, l’interesse per la condizione detentiva di altri. Inoltre la “dignità” della protesta è stata esaltata dal mezzo usato, la propria salute, per raggiungere l’obiettivo.

Peraltro la battaglia, ispirata – quale che sia il fondamento giuridico – a esigenze di umanità nelle carceri, si è saldato con l’interesse strategico mafioso a vedersi revocata la misura, così penalizzante per i loro scopi. I soggetti al 41 bis infatti appartengono alla criminalità organizzata (mafiosi, terroristi, altri associati a delinquere). Il solo caso “diverso” è quello di Cospito, un anarchico, cui la misura è stata applicata per ritenuta pericolosità sociale.

Ebbene, proprio i mafiosi, soggetti di cui sono stati acclarati i legami criminali con l’esterno, sono i beneficiari diretti della protesta dell’anarchico: il carcere duro è stato immaginato per loro, per recidere i collegamenti con l’ambiente criminale esterno.

Si avverte la strumentalizzazione della battaglia individualista di Cospito e la disponibilità di costui a prestarsi al perseguimento dello scopo mafioso di revocare la misura per il proseguimento dell’attività delittuosa.

La battaglia di Cospito genera un raccordo tra mondi ed interessi diversi, determinandone la convergenza sul piano degli obiettivi. Si ritrovano insieme: il destino dell’anarchico, l’agibilità dei circuiti anarchici e estremisti di stampo insurrezionalista, gli interessi di lungo periodo di mafia e terrorismo contro lo Stato e la convivenza civile.

L’impressione è che, nella complessità, la protesta di Cospito non trovi una chiave di lettura adeguata. Servirebbe per distinguere piani, districare problemi, offrire soluzioni accettabili. È come se si fosse creato un groviglio inestricabile, in cui si confondono cause ed effetti, i problemi reali si sovrappongono alle strumentalizzazioni, si generano ricatti intollerabili. I danni si moltiplicano.

Sembra di scorgere l’incapacità di interpretare i problemi. Al riguardo allarma la mancanza di lucidità e concretezza della politica. Il quadro generale diventa confuso anche quando vi siano atteggiamenti corretti. Le azioni, in mancanza di visione, sono poco efficaci.

Si trasferisce il detenuto in ospedale, ma emerge soprattutto la preoccupazione di sottrarsi ad ipotesi di responsabilità nel caso la protesta abbia esito nefasto. La fermezza sul 41 bis è incrinata dal momento politico, caratterizzato da pressioni e ricatti. È indebolita dalla mancanza di chiarezza circa i rilievi della giustizia europea e italiana. Una decisione dall’esterno (la Cassazione, il 24 febbraio sul mantenimento della misura) toglie le castagne dal fuoco.

Il governo si mostra incerto sulle questioni di fondo. La giustificazione del 41 bis è problema non di ora, serio e complesso, certamente da affrontare in sede politica, ma è cosa distinta dall’atteggiamento che lo Stato deve tenere verso i suoi detenuti, specie quando in pericolo è la vita stessa. La gravità della protesta segnala che proprio questa è la prima urgenza.

Il tema merita una trattazione di alto profilo, non d’essere triturato tra polemiche, scontri verbali, diverbi strumentali. Lo Stato è chiamato ad essere rigoroso senza eccedere, deve valutare la pericolosità del soggetto, soppesando sempre le ragioni del singolo con la tutela dell’interesse generale. Sottraendosi a qualsiasi ricatto.

Si deve pur trovare il modo di conciliare il rispetto costituzionale della dignità umana nella detenzione con la protezione della collettività contro il crimine, tenendo conto della peculiarità della situazione. L’eccezionalità della situazione è data dal fatto che il deterioramento della salute non è dovuta al trattamento carcerario, ma alla scelta volontaria del singolo che usa il proprio corpo per esercitare pressione, ovvero compiere un ricatto.

Trovare una sintesi è il compito imprescindibile dello Stato e rientra nella responsabilità della politica. Così desta sorpresa la singolare iniziativa del ministro Nordio, che, dimentico di essere lui il responsabile della Giustizia e oltre tutto di aver svolto (forse troppo tempo fa) le funzioni di magistrato, interpella il Comitato di bioetica sul da farsi nel caso concreto, come se non sapesse orientarsi e il Comitato potesse interloquire su un caso concreto e non – come suo compito – su questioni generali: spetta alla politica l’applicazione dei principi.

Sull’interpretazione della legge, in questo caso la Costituzione oltre che la legge ordinaria, non sono ammissibili incertezze, e il governo dovrebbe avere idee chiare sul da farsi, non essendo ammissibili incertezze sull’interpretazione della legge, che in questo caso è la stessa Costituzione, oltre alla legge ordinaria.

Il tema della posizione dello Stato davanti al ricatto dei singoli (qui perpetrato con l’uso strumentale della salute fisica) genera disorientamento, ma in realtà trova risposta nella libertà stessa di utilizzare la salute a quello scopo e di condurre con essa una protesta, per quanto quelle decisioni siano “anomale”, ed eccedano la vita stessa, siano in contrasto con la salvaguardia di sé.

Il rispetto della libertà individuale giustifica il rifiuto delle cure anche quando siano salvavita. Tutti hanno diritto di opporre detto rifiuto, ma il punto è che la legittimità del principio prescinde dal motivo dell’atteggiamento e dallo scopo. Non importa che il rifiuto dipenda da condizioni di salute insopportabili (come normalmente accade), o da motivi politici (un’eccezione).

Non è rilevante che la decisione dipenda da convinzioni strettamente personali, o all’opposto da ragioni riferibili al mondo circostante, come quelle proprio di gruppi religiosi, politici, addirittura criminali. Nulla può essere chiesto a spiegazione del gesto, nulla è necessario per difendere quel principio di libertà. Basta la capacità di intendere e volere al momento della decisione, e allora nessuno può interferire.

Ma se nessuno, tanto meno lo Stato, può/deve sindacare il gesto estremo in base ai motivi addotti, se ne può trarre una conclusione: lo Stato non è esposto alle conseguenze (morali, giuridiche, politiche) di un gesto che è frutto di autodeterminazione e dipende solo dal soggetto, senza alcun rilievo per i motivi o gli scopi.  Questa convinzione, alla fine, è liberatoria per lo Stato, esclude ogni soggezione al ricatto, restituisce serenità alla sua riflessione, che può inspirarsi a questo punto solo al senso di responsabilità e al rispetto dei principi costituzionali.

L’adattamento non può dipendere da ricatti o soggezioni, ma dalla scelta, vincolata solo alla Costituzione, di conciliare il rispetto del singolo, senza alcuna rilevanza per gli scopi, con la salvaguardia dei valori in gioco.

Non va mai dimenticato che le esigenze di sicurezza, poste a fondamento del 41 bis, già di per sé importanti, trovano l’ancoraggio più alto nello stesso principio di libertà, che è invocato, spesso a torto, per contestarle. Infatti la sicurezza pubblica tutela la libertà quale condizione dei singoli e della collettività tutta; è dunque il presupposto della convivenza civile. La civiltà del diritto ha gli strumenti per gestire in modo intelligente l’asimmetria con l’inciviltà del crimine.

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