di angelo perrone
La dichiarazione «Sono pronto a uccidere per lei, signore» sarebbe stata proferita da Dan Caine, Capo degli Stati Maggiori Riuniti degli Usa, la più alta carica militare del Paese. Un aneddoto, secondo il “Corriere”, raccontato più volte da Donald Trump, per vantarsi della compiacenza del militare nei suoi confronti.
La frase, interpretata alla lettera, è problematica: i militari dal punto di vista del diritto internazionale sono vincolati dalle norme che regolano l’uso della forza. Esse non solo stabiliscono quando e come la forza possa essere usata (ad esempio, legittima difesa, conflitto armato), ma anche contro chi e in quali circostanze.
Si rammenta l’obbligo di distinguere tra civili e militari, la proporzionalità della forza rispetto agli obiettivi, l’evitamento di danni collaterali, e tanto altro: il divieto di attacchi indiscriminati, la proibizione di mezzi come la tortura e l’impiego di certe armi.
La dichiarazione di «essere pronto a uccidere» senza alcun riferimento al rispetto di tali principi o alle leggi di guerra, può essere interpretata come una potenziale disponibilità a violare la legalità internazionale e il diritto umanitario. La frase si scontra frontalmente con l’obbligo, per i militari, di disobbedire a ordini illegittimi o manifestamente criminosi.
Questo principio è riconosciuto in molteplici ordinamenti. Ad esempio, il codice penale militare di pace italiano prevede sanzioni per il militare che esegue un ordine manifestamente criminoso. È paradossale ricordare, proprio ad americani, quanto affermato nella sentenza di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti: aver agito in esecuzione di un ordine superiore non esimeva l’individuo dalla responsabilità penale, di fronte a ordini manifestamente illeciti e in contrasto con le leggi e le convenzioni internazionali.
La frase del generale Caine, se intesa come volontà di andare oltre la legge per compiacere un superiore, suggerirebbe una disponibilità a violare obblighi giuridici ed etici. In un sistema democratico e in un contesto militare basato sullo Stato di diritto, la lealtà verso il comandante in capo è indissolubile dal rispetto della Costituzione e delle leggi. Dichiarazioni di questo tipo minano la fiducia pubblica nelle forze armate come istituzioni apolitiche e garanti del rispetto della legge, sia a livello nazionale che internazionale.