di angelo perrone
La notizia della definitiva libertà di Giovanni Brusca, ex boss mafioso e “pentito” coinvolto nella strage di Capaci (fu lui ad azionare il telecomando), riaccende il dibattito sulla finalità della pena. Brusca, dopo 25 anni di detenzione e la collaborazione con la giustizia, vive ora in una località segreta, lontano dalla Sicilia, una conclusione che genera amarezza – espressa dolorosamente dalla vedova del caposcorta di Falcone – e solleva interrogativi.
La storia di Brusca è emblematica. Da un lato, c’è la necessità dello Stato di combattere la criminalità organizzata ottenendo informazioni vitali per smantellare le cupole mafiose, individuare responsabili e prevenire nuovi crimini. La collaborazione dei “pentiti” è stata uno strumento efficace per raggiungere questi obiettivi. Dall’altro, la concessione di benefici penitenziari a chi si è macchiato di crimini efferati si scontra con il sentimento di giustizia delle vittime e della collettività.
È difficile accettare che un autore di tali atrocità possa tornare libero. Giuridicamente, però, il sistema penale italiano non ha una finalità esclusivamente retributiva. L’articolo 27 della Costituzione afferma che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato». Questo principio, unito alla necessità di prevenzione generale (dissuadere altri dal commettere reati) e speciale (impedire al reo di delinquere nuovamente), giustifica istituti come la collaborazione di giustizia, che prevedono sconti di pena in cambio di un contributo significativo alla lotta al crimine.
Il dilemma risiede nel bilanciamento, sempre problematico, tra efficacia investigativa e tutela sia del principio rieducativo che della richiesta di giustizia e memoria delle vittime. La libertà di Brusca, pur frutto di una collaborazione che ha portato risultati per la comunità, resta una ferita aperta per chi ha subito violenza, mettendo in luce il disagio della giustizia penale quando si confronta con il male assoluto.